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lunedì 5 aprile 2010

THE HURT LOCKER

Un Oscar per gli artificieri della guerra in Iraq

di Antonio Autieri


Il ritorno di Kathryn Bigelow all’eccellenza cinematografica meritava migliore attenzione, sia alla Mostra di Venezia dove era in concorso nel 2008, che nei cinema, dove è praticamente passato inosservato. Ed è un peccato, perché il film è una riflessione sulla guerra che spiazza. Senza dimenticare di fare grande cinema, con tutti gli strumenti che ci si aspetterebbe da un film di guerra: azione, tensione, ritmo, capacità di suscitare angoscia e pietà.
La regista di Point Break e del capolavoro Strange Days (è da allora, dal 1996, che rimpiangiamo il suo talento: l’ultimo suo film, K-19 su un sommergibile sovietico guidato da un improbabile Harrison Ford, non lasciò traccia) osserva dunque le azioni di un piccolo gruppo di soldati in Iraq, la cui missione è sgombrare il terreno da ostacoli e pericoli di ogni genere. Dalle automobili di potenziali kamikaze o dai cecchini che si possono nascondere ovunque, ma soprattutto dalle bombe che spuntano ovunque, addosso a persone vive o anche morte (perfino poveri bambini) o ben nascoste sotto il terreno, nelle case, dentro le auto… In effetti, il protagonista principale è proprio il nuovo capo dell’unità e sminatore o artificiere di grandissima professionalità, il sergente William James arrivato a sostituire - con un record incredibile di bombe disinnescate, oltre 800 - il predecessore Thompson (un cameo del noto Guy Pearce, che muore pochi secondi dopo la sua apparizione). Un capo che non si fa molto amare dai propri sottoposti, perché il suo coraggio sfiora spesso l’incoscienza e sembra esporre la truppa a inutili rischi. La guerra, o meglio il pericolo, è per lui diventata una droga di cui non può fare a meno («La furia della battaglia provoca una dipendenza fortissima e spesso letale, perché la guerra è una droga» recita una frase all’inizio del film). Tanto da conservare con cura maniacale e un po’ morbosa i pezzi delle bombe che avrebbero potuto ucciderlo. E da non saper tornare alla normalità, una volta tornato a casa. Ma forse c’è dell’altro, c’è anche il senso di una missione, una vicinanza a gente che soffre e che pure non ama gli “invasori” yankee. Perché nel film della Bigelow (che è tratto dalle cronache dell’inviato di guerra Mark Boal) c’è spazio anche per una tenera amicizia con un ragazzino che contribuirà a cambiare l’approccio di James, sempre spericolato ma più sofferente.
The Hurt Locker (letteralmente “la cassetta del dolore”, dove finiscono i resti di chi salta per aria per l’esplosione di un ordigno) ha diviso critica e pubblico che lo hanno interpretato in maniera diametralmente opposta: a chi lo trova un ambiguo affresco di una guerra da cui la regista non sa prendere le distanze, nell’esaltazione dell’eroismo di soldati simil Rambo, si contrappone chi vede nel film un atto d’accusa contro tutte le guerre. Ha fatto specie, a Venezia, leggere accuse a Kathryn Bigelow per il fatto di aver realizzato un film filo-Bush, da lei fieramente attaccato in interviste e conferenze stampa. Per lei l’Iraq è un tragico errore. Ma l’aver descritto i soldati americani - o almeno, “questi” soldati e non altri - come persone che cercano di fare il proprio dovere, rispettando un popolo che spesso non li ama e cercando di salvare anche chi cerca di ucciderli, questo non è politicamente corretto. E spiega tante, ingiuste, cattiverie su un film che - per le ottime qualità cinematografiche e per una rappresentazione dell’umano dolente e rispettosa - sarebbe un vero peccato perdere.

Miracolo a metà

di Luca Doninelli

Un film racconta la guarigione di una ragazza paralizzata. E piace ad atei e credenti. Ma nasconde un’ambiguità: la fede non c’entra in nulla. Ecco cosa succede quando non accettiamo il rischio di essere cambiati da ciò che facciamo

Dopo aver visto Lourdes, il film di Jessica Hausner, e averci pensato quanto basta per non dire solo quello che l’istinto mi suggerisce, ammetto che non so bene cosa dire.
Non che abbia le idee confuse. È che raccontare storie è una cosa molto difficile, e tante volte uno non lo sa e si mette a raccontare lo stesso, e per un po’ gli va bene, e riesce a produrre anche delle belle scene. Poi non sa bene come andare avanti e s’impantana, comincia a pasticciare, allora si aggrappa al già detto e al già sentito (anche in senso stilistico).
Non riassumere la storia è impossibile. Non è gentile verso chi ha voglia di vedere il film, ma almeno per linee generali occorre farlo.

La scoperta di Christine. Un gruppo di pellegrini va a Lourdes. Tra questi Christine, una ragazza affetta da sclerosi a placche, da anni costretta all’immobilità. Non è molto entusiasta del viaggio, preferisce le escursioni “culturali” come Roma. La sua assistente è una birichina cui piace più scherzare coi ragazzi che assistere i malati. Anche a Christine piacerebbe, ma non può. E se ne lamenta con un prete: perché proprio io?
In sua compagnia ci sono altre persone interessanti. Una è un’anziana che vuole guarire da una grave malattia e chiede a un prete come fare, sentendosi rispondere che è un problema di atteggiamento spirituale. C’è poi Cécile, la capogruppo, una donna giovane molto severa, che bacchetta la leggerezza delle ragazze e ricorda che dobbiamo pregare per l’anima e non per il corpo. Cécile in realtà è malata gravemente, e questa sua scissione dell’anima, che la rende rigida e infelice, si rivelerà presto anche nel corpo.
Una mattina, imprevedibilmente, Christine scopre di potersi muovere, si alza. I medici ammettono che si tratta di qualcosa di più di una semplice remissione del male. Lei legge questa guarigione come la possibilità, finalmente, di fare qualcosa di piacevole, come mangiare da sola una coppa di gelato, immaginare un futuro per sé e innamorarsi di un Cavaliere di Malta che si trova nel suo stesso gruppo.
Il finale è lungo e privo d’idee. Prima Christine e il giovane si baciano, poi c’è una festa da ballo e lei vuole ballare, poi cade per terra ma si rialza da sola, e alla fine - più per un moto di perplessità che per una recrudescenza della malattia - finisce per risedersi sulla sedia a rotelle, mentre tutti cantano Felicità di Al Bano e Romina.

Freno tirato. La Hausner è brava nel creare il ritmo del film, ci sono scene comiche e tutto sommato ci si diverte. Lo spettatore prende spontaneamente le parti della ragazza, non solo perché l’attrice, Sylvie Testud, riesce a trasmettere bene lo spaesamento del personaggio, ma perché è chiaro che il miracolo premia la sua voglia di vivere la vita fino in fondo.
Alla fine, però, la Hausner non riesce nell’intento: per farlo avrebbe dovuto liberarsi di certi modelli (in primis Luis Buñuel), che impongono ai fatti schemi troppo rigidi. La regista non segue fino in fondo il paradosso che a un certo punto sembra voler uscire dalle sue mani e si accontenta di una storiellina abbastanza atea e di gusto surrealista. Dico “atea” non tanto perché la Hausner sia atea dichiarata, ma perché le cose si fermano un po’ a metà, segno che la storia viene raccontata con il freno a mano tirato.
Si ferma a metà Christine, che ottiene il miracolo senza in fondo sapere che farsene: si ferma all’idea che adesso potrà realizzare i suoi sogni, o qualcosa di simile, e tant’è. Non vuole guardare fino in fondo come stanno le cose: non perché la regista voglia rappresentare un caso d’incertezza, ma perché incerta è la regista stessa, che si ferma anche lei a metà, proprio dove avrebbe potuto sferrare l’attacco finale: una preghiera, o anche una bestemmia... Qui sta il sostanziale fallimento del film, e su questo sono d’accordo con il giudizio di Vittorio Messori.
Certo che pure la Chiesa si ferma a metà (anche un po’ prima) e non esce molto bene dal film. Chi può trovare affascinante il cristianesimo quando le risposte dei suoi rappresentanti sono sempre così complicate e così poco pertinenti con l’urgenza delle domande? A un malato di cancro che urla a Dio che lo liberi dal male non si può rispondere che occorre, prima, un percorso per aprirsi alla Sua volontà affinché guarisca l’anima e dopo, semmai, lenisca le sofferenze del corpo.
Non che siano dette parole sbagliate: quello che manca sono gli uomini. Qui le parole della fede volano un po’ distratte qua e là, prendono corpo in voci che appartengono a persone che pensano ad altro: al futuro, all’amore, alla ragazza, tutte cose bellissime ma che il film ci presenta sempre come altro rispetto alla fede. La fede non c’entra mai: «Non bisogna mai esagerare», dice una signora che si era chiesta perché fosse stata miracolata proprio questa ragazza poco religiosa.

Uguali a prima. Insomma, l’idea che una tipa così guarisca a Lourdes non era brutta, anzi. Il problema è che, per realizzarla, un artista deve accettare dei veri rischi, e il primo è quello di essere cambiato da ciò che fa. E questo lo obbliga a prendere molto sul serio la fede. Qui, tutto sommato, di fede ce n’è poca. C’è solo una modernità malata, questo sì, oscillante tra il “credere di credere” e l’aperto scetticismo. E che alla fine, a dispetto del miracolo (cui nemmeno Christine sembra credere più), se ne torna a casa uguale a come era venuta.
Se la Hausner ci avesse raccontato tutto ciò con mano ferma, facendo proprio fino in fondo l’atteggiamento irridente dell’amato Buñuel, alla fine il film sarebbe risultato più apprezzabile. Invece si è persa. Ma proprio questo, paradossalmente, le ha portato fortuna, producendo un’ambiguità che alla fine ha reso gradito il film agli atei come ai cattolici: ciascuno ha potuto vederci quello che voleva.

Lo sguardo di Giotto

di Alessandra Gianni

I santi e i poveracci. Le immagini sacre e le scene di lavoro nei campi. E poi la prospettiva, le tre dimensioni, il volume... Indagine su quella «passione per ogni aspetto della realtà, fino al dettaglio» che ha permesso al grande pittore di rivoluzionare la storia dell’arte. Come si vede nell’esposizione in corso a Roma

«Credette Cimabue ne la pittura /tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, /sì che la fama di colui è scura» (Purgatorio, XI, 94-96). Ma in cosa consistette la grandezza di Giotto così esaltata già dai suoi contemporanei, come dimostrano i versi danteschi, oltre che le innumerevoli commissioni in tutta Italia e l’immediata ricezione delle sue novità nelle scuole pittoriche attive nei centri dove veniva chiamato a lavorare?
Una buona occasione per rispondere a questa domanda arriva dalla mostra in corso al Vittoriano di Roma. Con circa venti opere di Giotto (1267circa-1337) e della sua bottega, settantasei dipinti su tavola e ad affresco, ventiquattro codici miniati oltre ad alcune sculture (un brano di scultura gotica francese, Arnolfo di Cambio, Nicola e Giovanni Pisano e il ritratto di Enrico Scrovegni) e a oggetti di oreficeria, l’esposizione offre la possibilità di vedere un cospicuo gruppo di opere realizzate tra la fine del Duecento e la seconda metà del Trecento che documentano proprio la svolta impressa alle arti figurative dall’irruzione delle novità giottesche.
Giotto introduce in pittura la passione per ogni aspetto del reale descritto così come veniva percepito, con grande attenzione ai dettagli, all’uso e alla struttura. Anche se la verosimiglianza e il naturalismo non possono essere indicati come valori assoluti per la valutazione di un’opera d’arte, è evidente che tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, Giotto seppe interpretare l’esigenza spirituale nuova di veder rappresentati non soltanto le figure sacre in vesti e atteggiamenti umani, ma anche il mondo naturale e gli ambienti.

Verbo e dignità. Da quando il Verbo si è fatto carne, da quel momento, tutto ciò che era quotidiano, carnale, piccolo, vile assume una dignità infinita. Questo spiega tutto: la rappresentazione del lavoro nei campi accanto alle immagini di Dio nelle chiese romaniche; le scene con i poveracci, gli ammalati guariti da Cristo, le barche, le reti, gli strumenti di tortura, i brutti ceffi nei cicli dei santi; il Cantico delle Creature e la Divina Commedia. Questo spiega anche la rivoluzione di Giotto. La rappresentazione del dato naturalistico era stata anticipata dalla scultura gotica francese e dagli scultori della corte di Federico II in Puglia, e quindi da Nicola Pisano, già entro la metà del Duecento; ma la pittura rimaneva condizionata alla osservazione di autorevoli e antichi modelli bizantini fino a Giotto. Egli introduce la tridimensionalità. Le figure e gli oggetti, rappresentati con un forte senso del volume, vengono inseriti all’interno o sullo sfondo di strutture architettoniche, spesso riprese da edifici gotici realmente esistenti, disegnate in scorcio secondo un tipo di prospettiva empirica - cioè non ancora studiata scientificamente, come avverrà nel Quattrocento - che veniva utilizzata nella pittura romana antica e che era stata totalmente abbandonata durante tutto il medioevo. Una delle più incredibili rivoluzioni iconografiche e stilistiche fu realizzata dal pittore nella croce giovanile di Santa Maria Novella a Firenze.
Fino a Cimabue il corpo di Cristo morto, incurvato in maniera fortemente drammatica ma innaturale, era descritto con le fasce muscolari dell’addome e degli arti suddivise schematicamente in zone delimitate da linee scure; in questa croce dipinta Cristo è investito da una luce che piove dall’alto, cade sulla testa e percorre tutto il corpo rappresentato in maniera naturalistica, sia nella postura che nella struttura scheletrica e muscolare attraverso trapassi sfumati tra le zone in luce e quelle in ombra. La riscoperta del naturalismo, recuperato anche attraverso lo studio delle sculture antiche, si traduce nella pittura giottesca non solo nella resa oggettuale dei corpi e delle cose, ma anche nel ritorno alla intensa espressività. Si rappresentano di nuovo gesti vivaci, i sorrisi e le figure viste di profilo; questa inquadratura era stata riservata fino ad allora simbolicamente al demonio mentre le figure dei sacri personaggi venivano rappresentati frontalmente, cioè “in maestà”. Bellissimo, allora, il profilo di Cristo nella scena del Bacio di Giuda della Cappella degli Scrovegni.

Il polittico di Badia. Tra i polittici di Giotto quello di Badia, restaurato da poco, svela dettagli inediti, non leggibili nel precedente stato, come la mano di Gesù Bambino che entra nello scollo della madre e tira la veste increspandola. Maria assume i tratti di una donna corpulenta vestita con abiti popolani che sostiene tutto il peso del bambino che si slancia affettuosamente verso di lei sorridendole. Una Madonna di Cimabue che tiene in braccio un bambino giottesco corpulento e agitato esemplifica la svolta naturalistica impressa da Giotto. È possibile vedere da vicino il Dio Padre sul trono dipinto su uno sportello collocato sull’arco trionfale della Cappella degli Scrovegni.
Una delle opere più belle e più fruibili, anche grazie al perfetto stato di conservazione, è il Santo Stefano Horne, collocato nella produzione tarda di Giotto che dialoga con il principale concorrente del tempo, Simone Martini, assai richiesto in Italia e all’estero per la sua pittura raffinata ed elegante, vicina al linguaggio gotico francese. Nel Santo Stefano Giotto risponde al pittore senese, esibendo una pittura preziosa nella bellissima dalmatica bianca decorata con balze operate in oro; nel drappo di seta verde, cangiante in giallo nelle parti colpite dalla luce, che copre il volume sorretto dal santo diacono con una mano scorciata in modo così moderno da preannunciare Masaccio.

L’imitazione. L’improvvisa e irrevocabile svolta nella pittura provocata da Giotto fu subito registrata e imitata dai pittori e dai miniatori delle città nelle quali fu chiamato a lavorare: Assisi, Roma, Firenze, Rimini, Padova, Napoli, Milano. Un’intera sezione della mostra è dedicata ai codici miniati di diversa provenienza. Una fra le più precoci scuole pittoriche influenzate da Giotto fu quella dei pittori riminesi, presente in mostra Pietro da Rimini con la bellissima Deposizione, che documentano il contraccolpo subito dai pittori locali che andavano a vedere Giotto all’opera nella chiesa di San Francesco, trasformata nel Quattrocento nel Tempio Malatestiano. Vi sono tavole e affreschi di pittori attivi in Umbria, Roma, Napoli, Milano e Padova, fra questi il grande Altichiero, oltre che i giotteschi fiorentini delle varie generazioni: da quelli che lavoravano con Giotto a quelli attivi nella seconda metà del Trecento come Giottino, presente con il bellissimo tabernacolo ad affresco, capolavoro dell’artista che, sviluppando le premesse giottesche, seppe rendere la superficie materica delle cose come gli incarnati lievemente arrossati sulle guance, la morbidezza del drappo, appeso allo schienale del trono, nel quale gli angeli affondano le dita. Non mancano i pittori senesi che dialogarono con Giotto, in particolare Ambrogio Lorenzetti attivo anche a Firenze e il fratello Pietro che lavorò nella Basilica Inferiore di Assisi su pareti adiacenti a quelle affrescate pochi anni prima da Giotto.

Giotto e l'enigma di Isacco

Giuseppe Frangi
Storia di un affresco che per gli esperti è sempre stato un giallo. E di alcuni studi in grado di smentire quanto si pensava finora. Rivelando un genio che per esprimere la fede ha compiuto una rivoluzione
«Una nostra amica di Madrid, che sta a Roma adesso, mi ha mandato un particolare (di Giotto; ndr) della Maddalena che incontra il Signore risorto: la Maddalena si slancia verso di Lui per prenderlo e Lui fa: “Un momento non toccarmi, perché non sono ancora salito al Padre mio”. La foto riprende le due mani della Maddalena e la mano di Cristo: è una cosa bellissima perché non c’è nessun altro contenuto: ci sono le due mani della Maddalena lanciate così e la mano di Cristo che segna il confine. È una soglia: la soglia è il termine di un cammino e l’inizio di un’altra modalità di cammino. Uno “vive” venti chilometri per andare a casa; quando arriva sulla soglia della casa, vive in un altro modo (a casa si vive in un altro modo). Nei venti chilometri prima, doveva subire il freddo, la fame, la sua stanchezza; la casa è la dimora».
(Luigi Giussani, Vivendo nella carne, pp. 323-324)

La prossima volta che avrete la fortuna di visitare la Basilica Superiore di Assisi, dovrete affrettarvi alla terza campata della parete destra. Perché lì, in quei due riquadri in alto, divisi dalla lunga finestra ad ogiva, c’è l’inizio di tutto. Spieghiamoci: i due riquadri rappresentano la scena della Benedizione di Giacobbe, eccezionalmente divisa in due frames. A sinistra si vede Isacco, cieco e morente, che benedice appunto il secondogenito Giacobbe. A destra, invece, respinge il povero Esaù, vittima dell’inganno orchestrato dal fratello e dalla madre Rebecca. Sui libri di storia dell’arte queste due scene di eccezionale bellezza sono sempre state catalogate come opera di un non meglio specificato “Maestro delle storie di Isacco”. Per ragioni stilistiche, oltre che tecniche (sono nel registro alto e quindi nella lavorazione sono certamente precedenti rispetto agli affreschi più celebri con le Storie di San Francesco), i due riquadri sono i più antichi tra quelli della navata di Assisi.

“O” come originale
Ma è tale la loro qualità, e soprattutto la loro modernità, da rappresentare un vero mistero attorno al quale generazioni di studiosi si sono spaccati la testa. Sino a che qualcuno, come il grande critico Luciano Bellosi, ha rotto gli indugi e ha avanzato l’unico nome sostenibile per un tale capolavoro: Giotto. Tutta la sua riflessione è stata raccolta pochi mesi fa in un libro dal titolo magnifico (E i vivi parean vivi, tratto dal versetto di Dante, nel canto XII del Purgatorio), in cui ripercorre il cammino che l’ha portato a smentire l’ipotesi sostenuta negli anni Novanta da Federico Zeri, il quale, invece, era convinto che tutto il ciclo della navata di Assisi fosse da attribuirsi a un maestro romano della cerchia del Cavallini.
Oggi, però, l’ipotesi di Bellosi trova conferma in un nuovo bellissimo libro, appena pubblicato da Electa, e scritto da Serena Romano, una studiosa che come pochi altri conosce il cantiere di Assisi (La O di Giotto, Electa, € 38,00).
Ma torniamo su quei due riquadri. Siamo nell’ultimo scorcio del 1200. Il cantiere architettonico della Basilica è concluso e tocca a papa Niccolò IV, il primo francescano a salire al soglio pontificio, avviare i lavori per gli affreschi. Non ci sono documenti, ma il gioco serrato delle date non lascia molti dubbi. Agli inizi degli anni 90 viene montato il ponteggio e su quella navata di destra sale un maestro che intraprende qualcosa di assolutamente nuovo, sotto ogni profilo. Anche quello tecnico. Infatti per la prima volta la stesura dell’intonaco, sul quale il pittore interveniva appunto dipingendo “a fresco” (quindi nell’arco di una giornata), non avviene un po’ astrattamente dall’alto in basso a fasce (o “pontate” come recita il termine tecnico): il maestro impone che l’intonaco segua i perimetri delle figure, dimostrando quindi una conoscenza approfondita delle tecniche degli antichi. La stesura dell’intonaco deve seguire le necessità espressive dell’artista e non più viceversa.
È anche un maestro dalle idee molto chiare, perché conclude il lavoro in due settimane: sono rispettivamente sei e sette le giornate lavorative che si possono ricostruire proprio seguendo le stesure degli intonaci. È, infatti, icastico e insieme grandioso lo sviluppo narrativo, che come scrive giustamente la Romano, «mette in scena il primo dramma psicologico della pittura medievale» e ingloba per la prima volta «l’elemento “tempo” nella narrazione». Isacco steso nel grande letto, dentro una stanza che è un ambiente di eccezionale oggettività e profondità spaziale, con gli occhi realisticamente incrostati dalla forma di cecità che l’aveva colpito, è protagonista silente e inconsapevole delle due scene. A sinistra, un’ancella lo sostiene nella fatica di sollevarsi dal letto. A destra, sembra quasi ricadere all’indietro per scartare l’offerta di Esaù. Ma la regia delle due scene è tenuta da Rebecca: che a sinistra è osservatrice apprensiva dell’inganno orchestrato con Giacobbe. Mentre a destra scappa dalla stanza, completamente avvolta nel mantello, sorpresa di spalle in un brano di racconto pittorico di una sintesi e di una modernità che lasciano a bocca aperta.

L’esplosione di Padova
Ovviamente la domanda che a questo punto ognuno si pone è quella fatidica: che cosa porta a dire che queste due scene siano di Giotto? È lo scavo nella forma mentis dell’artista che porta la Romano alla certezza. Nelle due Storie di Isacco infatti si trovano, in forma di invenzione, tantissimi elementi che Giotto maturo farà “esplodere” negli affreschi di Padova, più di dieci anni dopo. Sono tanti e davvero affascinanti questi elementi di coincidenza profonda. Uno in particolare: quello del “gesto”. Giotto mette spesso un gesto, emotivamente potente, come perno delle sue composizioni. Nelle due Storie sono le mani, icasticamente isolate sul fondo rosso del tendaggio che chiude la stanza di Isacco. Ed è la stessa potenza semplice e densa che ritroviamo nella mano di Cristo, che si staglia sul blu del cielo nella scena dell’Ingresso a Gerusalemme a Padova; o è la stessa efficacia fragile e drammatica del braccio del bimbo, sollevato brutalmente nella Strage degli Innocenti; o è la semplicità tesa delle mani della Maddalena nel Noli me tangere, che tanto avevano colpito don Giussani (vedi pagina precedente). Tanti altri elementi profondi portano a identificare il maestro delle Storie di Isacco in Giotto. E Serena Romano ha il merito di proporli con una nettezza di sguardo e una precisione che costituiscono il fascino del suo libro. Quel che resta alla fine è il racconto per dettagli di qualcosa di inauditamente nuovo apparso sulla scena dell’espressività umana in quella fine di secolo. Ed è proprio questo essere “nuovo” che avrebbe permesso poi al Giotto di Padova di aderire con tanta energia e commozione alla novità che duemila anni fa è apparsa sulla scena del mondo.

Chi è padrone del tempo

di Laura Cioni

Perché nella Commedia si condanna chi crede di possedere, misurare e “vendere” una realtà che non appartiene a noi

Nell’infuocato girone in cui sono dannati i violenti contro Dio, Dante incontra bestemmiatori, sodomiti, usurai, colpevoli non di episodi isolati di intemperanza, ma di un atteggiamento voluto e costante di disprezzo verso il Creatore di ogni cosa e verso ciò che permette alla vita umana di svolgersi ordinatamente, la natura e il lavoro. La concezione dantesca è severa, come è severa l’Etica a Nicomaco di Aristotele, secondo i cui criteri è costruita l’architettura della prima cantica.
L’atteggiamento di Dante non è di sdegno nei confronti dei peccatori, in primo luogo Brunetto Latini, uno dei suoi maestri, in seguito di tre eminenti personalità di Firenze. Anzi, emergono in entrambi gli incontri sia la stima per i singoli, sia il dolore comune per le sorti della città.
La risposta dantesca alla domanda dei dannati se la situazione sociale di Firenze si sia mantenuta come ai tempi del loro operato, è tale da togliere ogni illusione, ma nello stesso tempo è piena di rincrescimento: «La gente nova e i subiti guadagni/ orgoglio e dismisura han generata,/ Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni» (Inferno XVI, 73-75).
Quello di Dante non è, come potrebbe sembrare a una prima lettura, l’elogio del buon tempo antico, in cui vigevano nobili costumi, indicati più sopra con l’espressione “valore e cortesia”. È piuttosto la diagnosi dei motivi storici che hanno fatto di Firenze una potenza politica, ma le hanno strappato quella rettitudine interiore che sola può assicurare pace e prosperità alla vita pubblica.
La rapida ascesa economica di gente venuta dal contado e la trasformazione dell’economia da terriera in mercantile, con la disponibilità monetaria che ne consegue, hanno ribaltato l’antica sobrietà nell’arroganza che la ricchezza facilita e nella perdita del senso della misura, cioè dell’equilibrio nell’azione.
Firenze ne piange, e con lei chi l’ama. Chi piange non disprezza e non ha lo sguardo volto al passato. Indica un principio più grande e più umano di quello meramente economico come guida al retto agire. Proprio per questo gli usurai si trovano sul limite estremo dei violenti contro Dio, là dove inizia l’Inferno più nero, in cui è punita la frode, ovvero l’uso scorretto della più alta facoltà umana, la ragione.

Un’offesa alla bontà divina
Già Aristotele aveva biasimato il ricavare denaro dal denaro; in Dante è detto chiaramente «ch’usura offende/ la divina bontade» (Inferno XI, 95-96).
Non soltanto chi presta il proprio denaro ad altissimi interessi, ma tutti coloro che si arricchiscono speculando corrono un rischio: ingannare l’uomo e usare violenza alla natura delle cose, che stabilisce il lavoro come mezzo per assicurare i beni necessari alle esigenze della vita. Ma se la struttura della realtà è data, non posta dall’uomo, trascurarne le leggi offende direttamente Dio.
Una osservazione finale, sulla quale forse non si riflette a sufficienza: il tempo appartiene a Dio,  non all’uomo, benché noi ci illudiamo spesso di possederlo misurandolo. La condanna dell’usura da parte della dottrina della Chiesa ha come ragione anche la componente dell’uso indebito del tempo.

DANTE E SINGLETON

Dante rappresentato da 
Domenico di Michelino.
Dante rappresentato da Domenico di Michelino.

Quando la filologia non basta

di Emmanuele Michela
09/03/2009 - Non solo un'analisi testuale della Divina Commedia. La tesi di Andrea Nembrini, laureatosi in Lettere, ci insegna quale sia la vera missione dello studioso e del lettore. Partendo da un grande dantista americano
Perché sempre meno persone sembrano disposte a lasciarsi affascinare dalla bellezza della Divina Commedia? E perché questo accade - paradossalmente - soprattutto in ambito accademico? Sono queste le domande da cui ha preso vita la tesi di Andrea Nembrini, laureatosi in Lettere moderne a febbraio alla Cattolica di Milano, con un lavoro dal titolo La passione di Dante: Singleton e dintorni.
«Ho deciso di dedicarmi ad uno studio su Dante - spiega Andrea - perché mi sono accorto che nessun altro scrittore ha saputo comunicare tanta bellezza alla mia vita come lui. Purtroppo mi rendo conto di un certo disinteressamento per questo autore: alcuni dicono che sia stato fin troppo studiato». Motivo? «Il dominio di una certa concezione della Filologia che, se da una parte ha saputo offrire una necessaria e scrupolosa analisi letterale, dall’altra ritiene spesso di poter esaurire l’intero significato del poema di Dante nella pura analisi testuale. Ci si è arenati così, specialmente in Italia, su pregevoli precisazioni testuali, dimenticando però il potenziale comunicativo della parola dantesca».
Andrea segnala, invece, come esempio di un corretto studio della Commedia, la figura di Charles Singleton, studioso statunitense scomparso nel ’85, docente ad Harvard e alla Johns Hopkins University: «Non si è limitato alla semplice analisi dell’opera dantesca, ma ha fatto della sua professione una vera conversione personale, necessaria per misurarsi con un testo così distante dalla nostra mentalità». Analizzando alcuni suoi scritti, come La poesia nella Divina Commedia, Saggio sulla Vita Nuova e altri articoli, è evidente quale sia il punto di partenza di Singleton (e con lui di altri critici statunitensi, quali John Freccero, professore della NYU, e Teodolinda Barolini, docente alla Columbia University): il bisogno, del lettore e del critico, di accomodare «gli occhi ad un diverso modo di guardare alla realtà», costantemente desideroso e impaziente di verità, senza fermarsi al semplice esame del testo e delle fonti, ma andando ad indagare l’effettivo “senso complessivo” dell’opera, e ciò che essa può comunicare ad ogni uomo.
«Ho provato così a continuare il lavoro iniziato da Singleton con alcune mie riflessioni, individuando nel continuo dialogo tra l’autore e il lettore il punto sorgivo della letteratura e della sua stessa critica: solo tramite questa chiave, infatti, un testo può rimanere sempre vivo e nuovo». Così l’evento letterario diventa innanzitutto un incontro tra uomini che può portare a intuire, per la simpatia che nasce tra lettore e autore, come il significato di un testo, insieme infinito e preciso, provochi lo svelamento di una verità. Prosegue Andrea: «In questo modo si riesce a cogliere il vero senso di un poema come la Commedia, ed il suo studio, da semplice rilevazione letterale, diventa rivelazione di un significato e riconoscimento di un’esperienza».
La tesi si conclude con una sottolineatura dell’importanza della lettura come “atto di amore”, da porre sempre alla base del lavoro di ogni studioso: impegnarsi col testo in maniera appassionata è l’unica disposizione generativa per una seria critica letteraria, tale da assicurare l’apertura mentale indispensabile alla scoperta della “sua” verità.
In questo modo Singleton e la scuola americana, facendo dialogare tra loro filologia ed ermeneutica, costituiscono esempi da seguire. «Non si può fare a meno di guardare al “senso complessivo” di un’opera letteraria come la Commedia. In ciò ci aiutano studiosi come questi, che ci fanno riscoprire la missione dello studioso e del lettore: non uno studio di parole morte, ma l’incontro con un uomo vivo».