Pagine

lunedì 5 aprile 2010

Chi è padrone del tempo

di Laura Cioni

Perché nella Commedia si condanna chi crede di possedere, misurare e “vendere” una realtà che non appartiene a noi

Nell’infuocato girone in cui sono dannati i violenti contro Dio, Dante incontra bestemmiatori, sodomiti, usurai, colpevoli non di episodi isolati di intemperanza, ma di un atteggiamento voluto e costante di disprezzo verso il Creatore di ogni cosa e verso ciò che permette alla vita umana di svolgersi ordinatamente, la natura e il lavoro. La concezione dantesca è severa, come è severa l’Etica a Nicomaco di Aristotele, secondo i cui criteri è costruita l’architettura della prima cantica.
L’atteggiamento di Dante non è di sdegno nei confronti dei peccatori, in primo luogo Brunetto Latini, uno dei suoi maestri, in seguito di tre eminenti personalità di Firenze. Anzi, emergono in entrambi gli incontri sia la stima per i singoli, sia il dolore comune per le sorti della città.
La risposta dantesca alla domanda dei dannati se la situazione sociale di Firenze si sia mantenuta come ai tempi del loro operato, è tale da togliere ogni illusione, ma nello stesso tempo è piena di rincrescimento: «La gente nova e i subiti guadagni/ orgoglio e dismisura han generata,/ Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni» (Inferno XVI, 73-75).
Quello di Dante non è, come potrebbe sembrare a una prima lettura, l’elogio del buon tempo antico, in cui vigevano nobili costumi, indicati più sopra con l’espressione “valore e cortesia”. È piuttosto la diagnosi dei motivi storici che hanno fatto di Firenze una potenza politica, ma le hanno strappato quella rettitudine interiore che sola può assicurare pace e prosperità alla vita pubblica.
La rapida ascesa economica di gente venuta dal contado e la trasformazione dell’economia da terriera in mercantile, con la disponibilità monetaria che ne consegue, hanno ribaltato l’antica sobrietà nell’arroganza che la ricchezza facilita e nella perdita del senso della misura, cioè dell’equilibrio nell’azione.
Firenze ne piange, e con lei chi l’ama. Chi piange non disprezza e non ha lo sguardo volto al passato. Indica un principio più grande e più umano di quello meramente economico come guida al retto agire. Proprio per questo gli usurai si trovano sul limite estremo dei violenti contro Dio, là dove inizia l’Inferno più nero, in cui è punita la frode, ovvero l’uso scorretto della più alta facoltà umana, la ragione.

Un’offesa alla bontà divina
Già Aristotele aveva biasimato il ricavare denaro dal denaro; in Dante è detto chiaramente «ch’usura offende/ la divina bontade» (Inferno XI, 95-96).
Non soltanto chi presta il proprio denaro ad altissimi interessi, ma tutti coloro che si arricchiscono speculando corrono un rischio: ingannare l’uomo e usare violenza alla natura delle cose, che stabilisce il lavoro come mezzo per assicurare i beni necessari alle esigenze della vita. Ma se la struttura della realtà è data, non posta dall’uomo, trascurarne le leggi offende direttamente Dio.
Una osservazione finale, sulla quale forse non si riflette a sufficienza: il tempo appartiene a Dio,  non all’uomo, benché noi ci illudiamo spesso di possederlo misurandolo. La condanna dell’usura da parte della dottrina della Chiesa ha come ragione anche la componente dell’uso indebito del tempo.

Nessun commento:

Posta un commento