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lunedì 5 aprile 2010

Lo sguardo di Giotto

di Alessandra Gianni

I santi e i poveracci. Le immagini sacre e le scene di lavoro nei campi. E poi la prospettiva, le tre dimensioni, il volume... Indagine su quella «passione per ogni aspetto della realtà, fino al dettaglio» che ha permesso al grande pittore di rivoluzionare la storia dell’arte. Come si vede nell’esposizione in corso a Roma

«Credette Cimabue ne la pittura /tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, /sì che la fama di colui è scura» (Purgatorio, XI, 94-96). Ma in cosa consistette la grandezza di Giotto così esaltata già dai suoi contemporanei, come dimostrano i versi danteschi, oltre che le innumerevoli commissioni in tutta Italia e l’immediata ricezione delle sue novità nelle scuole pittoriche attive nei centri dove veniva chiamato a lavorare?
Una buona occasione per rispondere a questa domanda arriva dalla mostra in corso al Vittoriano di Roma. Con circa venti opere di Giotto (1267circa-1337) e della sua bottega, settantasei dipinti su tavola e ad affresco, ventiquattro codici miniati oltre ad alcune sculture (un brano di scultura gotica francese, Arnolfo di Cambio, Nicola e Giovanni Pisano e il ritratto di Enrico Scrovegni) e a oggetti di oreficeria, l’esposizione offre la possibilità di vedere un cospicuo gruppo di opere realizzate tra la fine del Duecento e la seconda metà del Trecento che documentano proprio la svolta impressa alle arti figurative dall’irruzione delle novità giottesche.
Giotto introduce in pittura la passione per ogni aspetto del reale descritto così come veniva percepito, con grande attenzione ai dettagli, all’uso e alla struttura. Anche se la verosimiglianza e il naturalismo non possono essere indicati come valori assoluti per la valutazione di un’opera d’arte, è evidente che tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, Giotto seppe interpretare l’esigenza spirituale nuova di veder rappresentati non soltanto le figure sacre in vesti e atteggiamenti umani, ma anche il mondo naturale e gli ambienti.

Verbo e dignità. Da quando il Verbo si è fatto carne, da quel momento, tutto ciò che era quotidiano, carnale, piccolo, vile assume una dignità infinita. Questo spiega tutto: la rappresentazione del lavoro nei campi accanto alle immagini di Dio nelle chiese romaniche; le scene con i poveracci, gli ammalati guariti da Cristo, le barche, le reti, gli strumenti di tortura, i brutti ceffi nei cicli dei santi; il Cantico delle Creature e la Divina Commedia. Questo spiega anche la rivoluzione di Giotto. La rappresentazione del dato naturalistico era stata anticipata dalla scultura gotica francese e dagli scultori della corte di Federico II in Puglia, e quindi da Nicola Pisano, già entro la metà del Duecento; ma la pittura rimaneva condizionata alla osservazione di autorevoli e antichi modelli bizantini fino a Giotto. Egli introduce la tridimensionalità. Le figure e gli oggetti, rappresentati con un forte senso del volume, vengono inseriti all’interno o sullo sfondo di strutture architettoniche, spesso riprese da edifici gotici realmente esistenti, disegnate in scorcio secondo un tipo di prospettiva empirica - cioè non ancora studiata scientificamente, come avverrà nel Quattrocento - che veniva utilizzata nella pittura romana antica e che era stata totalmente abbandonata durante tutto il medioevo. Una delle più incredibili rivoluzioni iconografiche e stilistiche fu realizzata dal pittore nella croce giovanile di Santa Maria Novella a Firenze.
Fino a Cimabue il corpo di Cristo morto, incurvato in maniera fortemente drammatica ma innaturale, era descritto con le fasce muscolari dell’addome e degli arti suddivise schematicamente in zone delimitate da linee scure; in questa croce dipinta Cristo è investito da una luce che piove dall’alto, cade sulla testa e percorre tutto il corpo rappresentato in maniera naturalistica, sia nella postura che nella struttura scheletrica e muscolare attraverso trapassi sfumati tra le zone in luce e quelle in ombra. La riscoperta del naturalismo, recuperato anche attraverso lo studio delle sculture antiche, si traduce nella pittura giottesca non solo nella resa oggettuale dei corpi e delle cose, ma anche nel ritorno alla intensa espressività. Si rappresentano di nuovo gesti vivaci, i sorrisi e le figure viste di profilo; questa inquadratura era stata riservata fino ad allora simbolicamente al demonio mentre le figure dei sacri personaggi venivano rappresentati frontalmente, cioè “in maestà”. Bellissimo, allora, il profilo di Cristo nella scena del Bacio di Giuda della Cappella degli Scrovegni.

Il polittico di Badia. Tra i polittici di Giotto quello di Badia, restaurato da poco, svela dettagli inediti, non leggibili nel precedente stato, come la mano di Gesù Bambino che entra nello scollo della madre e tira la veste increspandola. Maria assume i tratti di una donna corpulenta vestita con abiti popolani che sostiene tutto il peso del bambino che si slancia affettuosamente verso di lei sorridendole. Una Madonna di Cimabue che tiene in braccio un bambino giottesco corpulento e agitato esemplifica la svolta naturalistica impressa da Giotto. È possibile vedere da vicino il Dio Padre sul trono dipinto su uno sportello collocato sull’arco trionfale della Cappella degli Scrovegni.
Una delle opere più belle e più fruibili, anche grazie al perfetto stato di conservazione, è il Santo Stefano Horne, collocato nella produzione tarda di Giotto che dialoga con il principale concorrente del tempo, Simone Martini, assai richiesto in Italia e all’estero per la sua pittura raffinata ed elegante, vicina al linguaggio gotico francese. Nel Santo Stefano Giotto risponde al pittore senese, esibendo una pittura preziosa nella bellissima dalmatica bianca decorata con balze operate in oro; nel drappo di seta verde, cangiante in giallo nelle parti colpite dalla luce, che copre il volume sorretto dal santo diacono con una mano scorciata in modo così moderno da preannunciare Masaccio.

L’imitazione. L’improvvisa e irrevocabile svolta nella pittura provocata da Giotto fu subito registrata e imitata dai pittori e dai miniatori delle città nelle quali fu chiamato a lavorare: Assisi, Roma, Firenze, Rimini, Padova, Napoli, Milano. Un’intera sezione della mostra è dedicata ai codici miniati di diversa provenienza. Una fra le più precoci scuole pittoriche influenzate da Giotto fu quella dei pittori riminesi, presente in mostra Pietro da Rimini con la bellissima Deposizione, che documentano il contraccolpo subito dai pittori locali che andavano a vedere Giotto all’opera nella chiesa di San Francesco, trasformata nel Quattrocento nel Tempio Malatestiano. Vi sono tavole e affreschi di pittori attivi in Umbria, Roma, Napoli, Milano e Padova, fra questi il grande Altichiero, oltre che i giotteschi fiorentini delle varie generazioni: da quelli che lavoravano con Giotto a quelli attivi nella seconda metà del Trecento come Giottino, presente con il bellissimo tabernacolo ad affresco, capolavoro dell’artista che, sviluppando le premesse giottesche, seppe rendere la superficie materica delle cose come gli incarnati lievemente arrossati sulle guance, la morbidezza del drappo, appeso allo schienale del trono, nel quale gli angeli affondano le dita. Non mancano i pittori senesi che dialogarono con Giotto, in particolare Ambrogio Lorenzetti attivo anche a Firenze e il fratello Pietro che lavorò nella Basilica Inferiore di Assisi su pareti adiacenti a quelle affrescate pochi anni prima da Giotto.

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