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giovedì 7 maggio 2015

Le crisi di panico di Manzoni, portavoce di umane fragilità contro la sopraffazione

A cura di Alfonso Berardinelli

 
Può sorprendere che uno studioso di estetica come Paolo D'Angelo abbia deciso di scrivere un saggio di duecento pagine intitolato Le nevrosi di Manzoni (Il Mulino). La sorpresa si converte presto, però, in curiosità e interesse. È noto che Manzoni soffrì per quasi tutta la sua lunga vita (1785-1873) di agorafobia e attacchi di panico: «mali di nervi», «angosce», «timore di mancamenti», dice lui stesso. È noto anche (e su questo insiste D'Angelo) che la sua attività creativa si interrompe con la composizione dei Promessi Sposi, cioè a partire dal 1827. Da allora in poi, Manzoni non osa più inventare, creare. Deluderà il vasto pubblico che si era conquistato e che si aspettava da lui altri appassionanti romanzi.
Ma creare e inventare cominciarono presto a sembrare a Manzoni peccati, colpe contro la verità storica. Del resto la sua poetica di narratore si fondava sulla più scrupolosa
ricerca della verità, dato che la funzione della letteratura doveva essere sostegno,conforto e persuasione morale. Le sue nevrosi gli avevano insegnato questo: che l'essere umano non può sostenersi da solo, deve poter contare su una vicinanza umana e sul soccorso di una fede.
La ricerca di D'Angelo ruota intorno all'analogia fra i problemi letterari di Manzoni, le sue psicopatologie e la sua conversione cristiana. Per affrontare il rischio degli spazi aperti, sia nella vita di tutti i giorni che nell' avventura romanzesca, lo scrittore cercava un terreno solido e un sostegno sicuro. Aveva bisogno di fede nella Provvidenza divina e di verità storica su cui costruire la narrazione, proprio come aveva bisogno di una persona che lo accompagnasse fuori di casa nelle sue passeggiate terapeutiche. Per questo, Manzoni è il consapevole difensore o portavoce della fragilità umana contro la violenza e l'ingiustizia del potere.
Solo negli ultimi vent'anni della sua vita, il conflitto fra letteratura e verità si attenua. La filosofia di Rosmini gli suggerì che anche le idee possono essere verità, non solo i fatti.

Manzoni «moderato»? Ma se era a favore della rivolta di Spartaco...

A cura di Alfonso Berardinelli
 
 
Da anni, anzi da decenni, non trovavo antologizzato, riproposto un qualche testo di Giovanni Papini, autore sul quale grava un discredito che direi cieco. Autore di un libro intitolato Stroncature (1916), ovviamente scandaloso e intemperante, Papini passò da un giovanile eclettismo ipercritico e distruttivo a una passionale fede cattolica.
Leggo ora in apertura dell'ultimo numero di Vita e Pensiero (luglio-agosto 2014) un saggio che Papini scrisse per la rivista nel 1923, quando aveva poco più di quarant'anni, dedicato a «Manzoni "ribelle" in nome della giustizia». Papini premette che i Promessi Sposi non sono un libro da leggere a scuola, perché per capirlo bisogna aver raggiunto l'età adulta. Lui stesso da giovane non lo capì, influenzato da un giudizio sbrigativo di Carducci, secondo il quale il messaggio centrale del romanzo sarebbe un invito alla prudenza e alla moderazione che consigliano di non «pigliar parte alle sommosse» perché si rischia troppo.
Fermamente e pacatamente, Papini rovescia questa idea tuttora piuttosto diffusa, mostrando che fra l'illuminismo e il cristianesimo di Manzoni esiste una precisa continuità ispirata da un forte senso di verità e giustizia in difesa degli oppressi. In proposito Manzoni parla chiaro soprattutto nel colloquio del cardinal Federigo Borromeo con Don Abbondio, a cui rimprovera di essersi sottratto al dovere di difendere i due giovani sposi promessi non sfidando il «potente prepotente» Don Rodrigo «a costo d'ogni pericolo».
È nota l'avversione di Manzoni per la Rivoluzione francese. Eppure «non è senza significato – dice Papini – che il Manzoni vecchio dedicasse l'ultime forze a un'apologia della Rivoluzione italiana (…) perché egli non combatte per principio le rivoluzioni, che riconosce in determinati casi necessarie, ma i mezzi che i rivoluzionari francesi adottarono per giungere al loro fine».
Ma l'argomento più forte usato da Papini è questo: poco prima di dedicarsi al suo romanzo, Manzoni «raccoglieva materiali e appunti per una terza tragedia» (dopo il Conte di Carmagnola e l'Adelchi) «e questa tragedia avrebbe avuto come eroe il simbolo dell'insurrezione contro l'ingiusto dominio: Spartaco».