Un Oscar per gli artificieri della guerra in Iraq
di Antonio AutieriIl ritorno di Kathryn Bigelow all’eccellenza cinematografica meritava migliore attenzione, sia alla Mostra di Venezia dove era in concorso nel 2008, che nei cinema, dove è praticamente passato inosservato. Ed è un peccato, perché il film è una riflessione sulla guerra che spiazza. Senza dimenticare di fare grande cinema, con tutti gli strumenti che ci si aspetterebbe da un film di guerra: azione, tensione, ritmo, capacità di suscitare angoscia e pietà.
La regista di Point Break e del capolavoro Strange Days (è da allora, dal 1996, che rimpiangiamo il suo talento: l’ultimo suo film, K-19 su un sommergibile sovietico guidato da un improbabile Harrison Ford, non lasciò traccia) osserva dunque le azioni di un piccolo gruppo di soldati in Iraq, la cui missione è sgombrare il terreno da ostacoli e pericoli di ogni genere. Dalle automobili di potenziali kamikaze o dai cecchini che si possono nascondere ovunque, ma soprattutto dalle bombe che spuntano ovunque, addosso a persone vive o anche morte (perfino poveri bambini) o ben nascoste sotto il terreno, nelle case, dentro le auto… In effetti, il protagonista principale è proprio il nuovo capo dell’unità e sminatore o artificiere di grandissima professionalità, il sergente William James arrivato a sostituire - con un record incredibile di bombe disinnescate, oltre 800 - il predecessore Thompson (un cameo del noto Guy Pearce, che muore pochi secondi dopo la sua apparizione). Un capo che non si fa molto amare dai propri sottoposti, perché il suo coraggio sfiora spesso l’incoscienza e sembra esporre la truppa a inutili rischi. La guerra, o meglio il pericolo, è per lui diventata una droga di cui non può fare a meno («La furia della battaglia provoca una dipendenza fortissima e spesso letale, perché la guerra è una droga» recita una frase all’inizio del film). Tanto da conservare con cura maniacale e un po’ morbosa i pezzi delle bombe che avrebbero potuto ucciderlo. E da non saper tornare alla normalità, una volta tornato a casa. Ma forse c’è dell’altro, c’è anche il senso di una missione, una vicinanza a gente che soffre e che pure non ama gli “invasori” yankee. Perché nel film della Bigelow (che è tratto dalle cronache dell’inviato di guerra Mark Boal) c’è spazio anche per una tenera amicizia con un ragazzino che contribuirà a cambiare l’approccio di James, sempre spericolato ma più sofferente.
The Hurt Locker (letteralmente “la cassetta del dolore”, dove finiscono i resti di chi salta per aria per l’esplosione di un ordigno) ha diviso critica e pubblico che lo hanno interpretato in maniera diametralmente opposta: a chi lo trova un ambiguo affresco di una guerra da cui la regista non sa prendere le distanze, nell’esaltazione dell’eroismo di soldati simil Rambo, si contrappone chi vede nel film un atto d’accusa contro tutte le guerre. Ha fatto specie, a Venezia, leggere accuse a Kathryn Bigelow per il fatto di aver realizzato un film filo-Bush, da lei fieramente attaccato in interviste e conferenze stampa. Per lei l’Iraq è un tragico errore. Ma l’aver descritto i soldati americani - o almeno, “questi” soldati e non altri - come persone che cercano di fare il proprio dovere, rispettando un popolo che spesso non li ama e cercando di salvare anche chi cerca di ucciderli, questo non è politicamente corretto. E spiega tante, ingiuste, cattiverie su un film che - per le ottime qualità cinematografiche e per una rappresentazione dell’umano dolente e rispettosa - sarebbe un vero peccato perdere.