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venerdì 24 dicembre 2010

Buon Natale!

Gesù è nato per noi, per salvarci e renderci simili a Lui, Uomo-Dio. Rallegriamoci per tale dono!

lunedì 29 novembre 2010

La Natività di B.Congdon

di Pigi Colognesi

C’e una disarmata fragilità nella Natività di William Congdon che campeggia sul manifesto natalizio proposto da CL che si può trovare appeso in case, uffici e scuole. È stata dipinta nel 1960 e il suo autore, allora quarantottenne, è battezzato soltanto dall’anno precedente. Muove i primi passi nella Chiesa cattolica, seguendo come un bambino le indicazioni che gli vengono date. Soprattutto da parte di don Giovanni Rossi, il fondatore della Pro Civitate Christiana di Assisi che lo aveva conosciuto qualche anno prima, poi atteso e abbracciato al culmine della disperazione nell’agosto del 1959.



Congdon aveva cercato dappertutto, letteralmente in tutte le parti più belle del mondo, l’immagine che, attraverso l’arte, potesse redimere un’esistenza posta sotto il segno del naufragio, dell’insicurezza, dell’assenza di paternità. Aveva avuto un notevole successo nelle prestigiose gallerie di New York, ma non era stato sufficiente. Quanto più viaggiava in cerca dell’autentico, tanto più l’esile zattera dell’arte perdeva pezzi, lo lasciava sempre più solo e disperato, in balia dell’immensità del mare tanto amato e altrettanto temuto. Il gorgo lo inghiottiva.

Naufrago per l’ennesima volta dopo l’ennesimo viaggio, Congdon è tornato da don Giovanni, senza più nessuna energia. Allora, sorprendentemente, il sacerdote gli ha detto che era pronto per ricevere il battesimo, poteva rinascere da un’altra acqua. Ha accettato. Senza neanche sapere bene cosa fosse il cattolicesimo e come si facesse a viverlo. Perciò ha seguito quello che gli veniva suggerito: dipingi i principali misteri della fede. Ad esempio la Natività.

Il nero pavimento assomiglia alle intricate vie delle città formicolanti che aveva un tempo dipinto; ma ora non sprofonda, sostiene. Le pareti intorno sono simili alla voragine risucchiante del Colosseo o al dirupo da cui Positano cade in mare di vecchi quadri; ma ora diventa la calda scenografia dell’evento, l’abbraccio a qualcosa di fragilissimo, ma reale: quella donna seduta, poco più che una spatolata di tenero azzurro, e suo figlio, nient’altro che un bozzolo bianchissimo. Non poteva proferire altro che questo balbettio il neo cattolico William Congdon.

Ma su questo bozzolo, che è anche un seme, s’appoggia come a centro sicuro tutta la composizione. E si appoggerà tutta la sua vita. Sull’orlo delle pareti, in alto, non ci sono più le case pericolanti di Roma o New York, né i palazzi traballanti di Venezia; ci sono i cori angelici, una festosa confusione di ali. Solo tre anni prima ben altre ali avevano occupato, nere, distese, aggressive, tutto lo spazio del quadro: quelle dell’avvoltoio visto in Guatemala, uccello annunciatore di morte e che di morte si nutre. Angelo funereo che a Congdon parve annunciare la sua stessa morte.

Sopra Maria e il Bambino, quasi invisibile, una capanna dagli esili sostegni e dal tetto traballante. È la casa, il luogo del riposo, del conforto, l’approdo di ogni viaggio. È la Chiesa. Allora, in quel 1960, Congdon non sapeva ancora che forma avrebbe preso per lui questa dimora. Sarà la compagnia del movimento di CL, con la quale camminerà per il resto della vita. In essa scoprirà che per essere artista cristiano non è indispensabile trattare argomenti sacri.

Lui aveva sempre dipinto quello che i suoi occhi vedevano: città, monumenti, deserti. Nella nuova dimora tornerà a questi suoi soggetti. Attraverso un itinerario non privo di fatiche comprenderà che quel Bambino, quel bianco seme, è il fondo di cui consistono tutte le cose che si vedono. E lietamente dipingerà campi, piogge, alberi e colline trasfigurate dalla percezione della loro gloria. La gloria della salvezza di tutti gli uomini e di tutte le cose che è iniziata con la disarmata, potentissima, fragilità della Natività.

da ilsussidiario.net

mercoledì 20 ottobre 2010

Gran Torino

Cominciamo con un riassunto del film, di Beppe Musicco, tratto da Sentieri del cinema.

recensione

«Quella di Clint Eastwood è un’opera che lascia senza fiato. A 78 anni, e dopo Changeling, erano in molti a prevedere che Eastwood avrebbe scelto espressioni più descrittive o si sarebbe ritirato. Noi non conosciamo i piani di Clint per il futuro, ma una cosa è certa: al momento non c’è nessun altro nel panorama cinematografico mondiale in grado di competere con lui, come attore e come regista.
Ambientato nella Detroit che patisce la scomparsa delle case automobilistiche, Gran Torino inizia col funerale di una donna, la moglie di Walt Kowalski. Lui ha lavorato per una vita alla Ford, ha combattuto in Corea e non vuole lasciare la sua villetta con la bandiera che sventola sulla facciata, in un quartiere abbandonato dagli americani e ora popolato di asiatici. Walt è un uomo “tutto di un pezzo”, che non ha bisogno di niente e di nessuno e di certo non cerca di essere accondiscendente: disprezza i due figli maschi, per come hanno educato i loro figli e perché sa che lo vorrebbero in un ricovero, rinfaccia al prete che lo viene a trovare la sua inesperienza di fronte alle tragedie della vita, sembra odiare cordialmente i vicini asiatici, che chiama senza timore “musi gialli”. Quando poi il ragazzo di questi, Thao, cerca di rubargli l’unica cosa di cui sembra realmente orgoglioso, la splendente Ford Gran Torino che conserva con cura maniacale, Walt sembra pronto a imbracciare il fucile usato in guerra e farsi giustizia da solo.
Ma la vendetta di una gang di asiatici sul ragazzino (il furto doveva essere un prova di coraggio per essere ammesso) sposta la canna del fucile di Walt, e la direzione della storia. Il rude Kowalski si alza dalla sua veranda dove è solito tracannare birra e fa la conoscenza coi vicini; impara che non sono coreani ma hmong (che vivono tra Cambogia, Laos e Vietnam), fa la conoscenza con Sue, sorella di Thao. Soprattutto inizia a sviluppare un particolare sentimento nei confronti di Thao, facendosi carico dei problemi materiali del giovane, ma anche introducendolo al mondo dei grandi, dandogli delle prospettive, comportandosi insomma come un padre. Ci sono momenti veramente toccanti e delicati nel film su questo argomento, ma la tragedia incombe. Kowalski non vive nel migliore dei mondi possibili e la ricerca della pace interiore, ben evidenziata nei dialoghi con l’insistente pretino, deve fare i conti con una realtà violenta e disumana, davanti alla quale il protagonista sarà chiamato a scelte che non lasceranno scampo.
La vita e la morte, la gioia e il dolore, il dono di sé: tutto ciò è comprensibile solo nel rapporto, ci dice Clint Eastwood. E tutti abbiamo bisogno che continui a ricordarcelo.»

per un giudizio

Non sono del tutto daccordo con Musicco. Il tema del superamento del razzismo è bello, ma sa tanto di ovvio, di politically correct. Il punto centrale del film è la fine, quando il vecchio si fa uccidere (perché è questo che fa), pur di incastrare la gang che ha stuprato Sue: è giustizia (magari martirio) o (una forma raffinata di) vendetta?
Certo, non lui uccide, ma si presenta alla gang per essere ucciso. Questo lascia un po' di amaro in bocca, per un certo cupo pessimismo che ne trasuda, per una protestantica cristallizzazione nel male, ad onta della insistente presenza di un prete cattolico. Prete che, nel funerale finale del vecchio ammette di avere imparato da lui, come arrendendosi al presupposto, protestante, della insuperabilità del male.

lunedì 13 settembre 2010

Congdon, i crocifissi - secondo Cacciari

Quale Dio in croce?
CACCIARI
Tra male e amore l’uomo-Signore che s’inabissa in terra
Cur deus homo? È forse l’interrogazione dell’arte figurativa dell’Europa o Cristianità, che ha per questo nel Crocefisso il suo topos più estremo. Perché Dio assume questo volto disfatto? Patisce questa morte maledetta? Holbein aveva disegnato ai margini del suo esemplare dell’Encomion moriae di Erasmo un Cristo con il berretto dei folli... Non è follia volersi incarnare? Di fronte a questo mistero si ergono i Crocefissi dei Cranach, le Passioni di un Grünewald, il Cristo deriso di Bosch e il Calvario di Bruegel, il grande Crocefisso del Velàsquez, col capo reclino, il volto coperto dai capelli (come nel Crocefisso 2 di Congdon), la cattura del Cristo di Goya. Ma tra tutte queste immagini la più affine a quelle di Congdon a me pare il Cristo disegnato da Juan de la Cruz: uno scheletrico squarcio, colto dall’alto, dal culmine dell’abbandono. Poiché questa è l’icona del Cristo che Congdon patisce: quella del radicale abbandono.

Di più: egli non dipinge un’immagine, ma il grido dell’abbandono. Quella creatura, i cui tratti vanno disfacendosi, il cui dolore de-liradai limiti della sua carne, per trasformarsi in dolore del corpo del mondo – quella creatura non chiede se è stata abbandonata, ma perché. Perché un abisso si spalanca tra quel corpo appeso e la Maiestas domini? Congdon ha visto un «buco» nel suo Crocefisso: un abisso, appunto. Il Crocefisso non sembra indicare altro che l’abisso. Eppure quale forza straordinaria si sprigiona proprio da questa icona dell’abisso che ci separa dalla Maiestas divina? Come può questo grido che suona di disperazione, apparire come atto di fede e di amore? Osservando la stessa struttura compositiva dei Crocefissi di Congdon è questo il dramma che sconvolge: tutto vi sembra partecipare, la tessitura cromatica è lacerata catastroficamente – eppure, proprio questo parla di anastasis, proprio lo sprofondare nel «buco» di questo «dolore diventato corpo» parla di resurrezione.

Cur deus homo? Nessuno potrebbe reintegrare la ferita se non Dio. Troppo grande è l’abisso che quella ferita ha aperto perché una potenza umana possa salvare. E questo abisso deve far vedere il pittore del Crocefisso. Ma, un tempo solo un uomo, una creatura così ferita, deve voler accogliere la possibile salvezza, l’ad-ventus imprevedibile. Solo un uomo deve voler bere il calice fino all’ultima feccia. E solo un Dio può salvare. Ecco il nodo che deve potersi mostrare in un’immagine sola.

sabato 21 agosto 2010

Non è un paese per vecchi (No Country For Old Men)

Mi permetto di pubblicare questa recensione apparsa su Sentieridelcinema.it, un ottimo sito sul cinema, condividendola pienamente. Il film, lo dico en passant, mi ha avvinto, pur lasciando dell'amaro in bocca infatti appare segnato da accenti di autenticità.


2007, Usa, Regia di: Ethan e Joel Coen
Cast principale: Tommy Lee Jones, Josh Brolin, Javier Bardem, Kelly McDonald, Woody Harrelson
Valutazione: Imperdibile

Un cacciatore incappa in un massacro tra corrieri della droga e si impossessa di una borsa piena di soldi. Sulle sue tracce si mette un killer psicopatico e uno sceriffo che cerca di salvargli la vita.
Recensione

È un America spietata e senz’anima quella che McCarthy svela nel suo libro “Non è un paese per vecchi” e portato sullo schermo dai fratelli registi Ethan e Joel Coen. Dovrebbe titolarsi forse, “Non è un paese per nessuno” a sentire le parole dello sceriffo Ed Tom Bell (Tommy Lee Jones), di fronte alla marea montante e irrefrenabile di un crimine disumano e totalmente privo di senso. Mentre scorrono le immagini di un Texas assolato e spoglio, sono le parole fuori campo dello sceriffo le prime che ascoltiamo. Bell ricorda di quando ha arrestato un giovane omicida che sarebbe di lì a poco andato – senza rimorsi -sulla sedia elettrica, e sullo schermo comincia l’impressionante sequenza di delitti di Anton Chigurh, un killer che gira con una pistola ad aria compressa usata nei mattatoi, con la quale senza esitazioni uccide chi gli si para davanti. Chigurh è stato prezzolato per trovare Llewellyn Moss, un uomo che mentre era a caccia si è imbattuto in un massacro tra trafficanti di droga. Moss è un uomo normale; fa il saldatore, ha una moglie, conduce una vita onesta. Ma di fronte a due milioni di dollari abbandonati in un furgone circondato di cadaveri, chi non sarebbe tentato? A tradirlo è un gesto compassionevole: mentre torna sul luogo del massacro per portare acqua all’unico superstite, viene visto. E comincia la caccia.

I fratelli Coen sono la coppia di registi cui molto deve il cinema degli ultimi anni (“Barton Fink”, “Mr. Hoola Hoop”, “L’uomo che non c’era”, “Il grande Lebowski”, “Fratello dove sei”), ma quello che più viene in mente guardando questo film è senza dubbio “Fargo”, un’opera magistrale sul crimine e le sue motivazioni. Confrontarsi con un’opera di McCarthy non è certo una cosa semplice e molti (fuori dell’America, principalmente), hanno visto il film dei Coen come un depauperamento del romanzo dello scrittore, considerato uno dei massimi viventi (di cui si stanno girando le versioni cinematografiche de “La strada” e “Meridiano di sangue”). Nel libro, a far da contraltare alla crudeltà di cui il testo è disseminato, ci sono le parole che lo sceriffo dice alla moglie, ai suoi vice o semplicemente a se stesso, quando osserva con disincanto come la droga e il denaro stiano cancellando ogni forma di umanità, a partire dalle cose che sembrano più semplici e banali. È vero, non tutto è stato riportato nel film, che ha un andamento molto più concitato e compresso, e forse la cosa di cui si sente più la mancanza è la riflessione finale dello sceriffo sul motivo e il significato del lavoro. Ma l’opera dei Coen riesce comunque a mantenere il tono che McCarthy ha impresso alla storia, grazie alla felicissima scelta degli interpreti: Javier Bardem, con un’espressione pietrificata e un’acconciatura incredibile riesce a trasmettere perfettamente l’alienità di Anton Chigurh; Josh Brolin, nei panni di Moss, che si assume la responsabilità della sua irrimediabile scelta; ma soprattutto Tommy Lee Jones è esattamente come il lettore si immagina debba essere lo sceriffo Bell. Asciutto, misurato, ironico, come quando sembra temere più la moglie dei criminali cui dà la caccia. E tragicamente consapevole di quanto sta accadendo: «Tutto comincia quando si inizia a trascurare le buone maniere. Quando non senti più dire “signore” e “signora”, sai che la fine è vicina». “Non è un paese per vecchi” probabilmente non è un film perfetto, ma di certo è uno dei migliori che i Coen abbiano girato e si merita fino in fondo le statuette vinte all’Oscar 2008.

Beppe Musicco

venerdì 13 agosto 2010

CALIGOLA e il dramma del desiderio

di Davide Rondoni

Vent’anni di limature. Fino a riscriverla tre volte. Ad inaugurare la kermesse riminese sarà la pièce su cui Albert Camus ha lavorato tutta la vita. Dove, attraverso il celebre imperatore, dà voce allo struggimento dell’uomo: «Voglio l’impossibile». E provoca ognuno ad una scelta: o far cadere quella domanda, o lasciare che ci renda protagonisti nel teatro dell’esistenza

Ci ha messo vent’anni. E tre versioni. Ci ha lavorato su tutta la vita. Perché Caligola è tutto quel che Albert Camus poteva dire. Che aveva detto altrove, in romanzi ammirevoli. E in altre pièce, saggi, in polemiche. Ma Caligola ha dato corpo e voce a tutte le altre parole. Le ha fatte diventare “uno”, un corpo e un volto. Un personaggio che “fa pensare”, come vien detto sulla scena. Anche se ormai le parole di una famosa scena, «voglio la luna», le canta Emma Morrone - la vincitrice di Amici in testa alle hit parade - e non più i sedicenti rivoluzionari di casa nostra che semmai gridano di volere Santoro in tv o qualcuno in galera. «Voglio l’impossibile», dice una delle battute più celebri del dramma.
La versione iniziale, del 1941, cui qui si fa riferimento, è quella più ricca e pervasa da motivi che poi l’autore, in quella più nota del 1944 (andata in scena nella Francia sotto bombardamenti e dunque letta molto spesso in chiave “politica” anti-hitleriana) e poi nelle successive riedizioni fino alla morte, provvederà ad “asciugare” e a togliere. Per pudore, per stanchezza, per rastremazione stilistica. Ma qui, proprio nella ricchezza e nella esuberanza di questioni, si coglie forse meglio da quali cavità viene il carattere principale del personaggio creato da Camus con il nome del celebre imperatore romano: l’inafferrabilità. Che è come dire il carattere somma di tutti gli altri caratteri. L’inafferrabilità di un uomo che ha deciso - a seguito della perdita di quanto gli dava felicità, ovvero l’amata Drusilla - di essere “logico” con la finitezza e il potere. «Prima di sapere che c’è la morte», dice nelle prime scene Caligola, «tutto mi sembrava credibile. Perfino i loro dèi, le loro speranze, i loro discorsi. Ora non più. Ora non mi rimane altro che questo futile potere di cui tu parli». Il potere massimo, quello dell’imperatore, diviene il luogo di verifica, si potrebbe dire, della possibile libertà dell’uomo. A colui a cui tutto è consentito, è concessa l’esperienza della libertà come soddisfazione? È concessa la luna? Anche se il passato gli aveva concesso la luna, anche se nell’amore per la sua Drusilla ha avuto quella luna tra le braccia, il presente non gliela porta più. E nemmeno il dolore per la perdita è l’ultima parola.
Caligola lo sa bene. Non c’è un’ultima parola, nemmeno nelle esperienze più dure e profonde. Né il dolore, né la viltà, né la crudeltà, e nemmeno la tenerezza dicono l’ultima parola sulla vita, che è perseguitata da una tensione assoluta: «Ecco cosa mi perseguita. Questo andare oltre...», dice come un Ulisse dantesco pieno di amarezza. «Nelle mie notti senza sonno ho incontrato il destino: non puoi immaginare che aria idiota che ha. E monotona...». Questo disvelamento, che atterrisce e al tempo stesso spegne e consegna la vita a una sospensione assurda tra aspirazione e prostrazione.

Come Dante. E infatti Caligola appare ai suoi interlocutori più vicini, agli stessi congiurati, incomprensibile. Ha accettato di essere “logico” con questo disvelamento e con questa alternanza tra struggimento per la tensione alla conquista di qualcosa di “impossibile” e la caduta in una specie di suprema indifferenza per tutto. Perciò sembra giocare con la strage, dando nessuna importanza alla morte che sparge intorno a sé in modo tanto ironico quanto feroce, e sembra disfare ogni fondamento al potere proprio mentre ne attua in modo sconcertante gli arbitrii più folli.
Il Caligola di Camus si trova, in partenza, esattamente nella stessa situazione di Dante. Aver perso la donna amata lo getta nella selva oscura. Il dramma, infatti, si apre con Caligola cercato dai senatori e dalla corte perché erra come un pazzo dopo la morte di lei. Anche qui, come in molti capolavori della letteratura, la vicenda appare segnata da un conto aperto con il destino. Un trauma, cioè un colpo subito e che scuote ogni possibilità di pacifico “accordo con la vita”. «Come si può continuare a vivere con le mani vuote quando prima stringevano l’intera speranza del mondo? Come venirne fuori? (scoppia in una risata falsa, artificiosa). Fare un contratto con la propria solitudine, no? Mettersi d’accordo con la vita. Darsi delle ragioni, scegliersi un’esistenza tranquilla, consolarsi. Non è per Caligola».

L’assurdo e il destino. La vita per l’imperatore diviene perciò “esecuzione”, termine che ha il triplice valore di performance teatrale, privilegio di boia, e inevitabile azione secondo una necessità stabilita e ineluttabile. La non-tranquillità di Caligola contrasta con tutti i generi di tranquillità dei personaggi che lo circondano, i senatori, l’amante, i sudditi. La sua inquietudine lo porta a vestire i panni di una grottesca Venere (dea dell’amore e della nascita del mondo) o del più buono tra gli uomini che, al pari di Dio, pensa di poter ridare l’innocenza a chi ha commesso la colpa, come accade con uno dei suoi congiurati, una specie di personaggio alter ego, Cherea. Il quale sa della vita le stesse cose di Caligola, ma si comporta diversamente. Anche io, dice Cherea, «ho voglia di vivere e di essere felice. E credo che le due cose non siano possibili se si spinge l’assurdo fino alle estreme conseguenze».
L’assurdo, appunto, è la presenza del destino, che ha quel volto idiota. Mentre Caligola sa che ogni azione è perciò in fondo uguale, imprigionata nell’impotenza di avere (riavere) la luna, Cherea accetta invece che per una convenzionale felicità nella vita certe azioni valgano più di altre. Ma per lo stesso motivo deve eliminare Caligola, che più che odiato è “scomodo”.

«Sono ancora vivo!». Il testo nasce a ridosso della grande stagione teatrale e letteraria dell’assurdo. La stagione di Beckett, di Ionesco e di altri grandi drammaturghi e scrittori. L’esperienza devastante della Seconda Guerra mondiale mise un sigillo anche socio-politico a questa conoscenza del destino come “assurdo”, e la vita una poesia sulla morte. «La recito a modo mio, tutti i giorni», dice Caligola. Camus mise la sua forte, acuta intelligenza nella lavorazione, e le sue ferite e le sue fascinazioni di uomo. Il suo sguardo che conosceva il deserto e i colori d’Algeria. La conoscenza della lotta politica e culturale.
Ci sono molti momenti in cui al lettore e allo spettatore si rivelano verità estreme della vita. Anche scomode o perturbanti. E il grido finale di Caligola mentre muore («Sono ancora vivo!») si fissa, quasi come sguardo di medusa che pietrifica. O meglio, che incide con il fuoco l’esistenza di una figura umana che desidera l’impossibile e per questo scardina ogni luogo comune obbligando a “pensare”.
Il lettore che non indietreggia di fronte a questo sguardo ha due possibilità. O compiangere e detestare Caligola, oppure lasciare che quella domanda passi sulle proprie labbra, butti sottosopra la propria esistenza, lo renda strano e inafferrabile agli occhi di tutti. Lo renda un “personaggio” in questo teatro di gente che invece s’è messa d’accordo con la vita.

Tratto da Tracce, N.5, Maggio 2010

lunedì 21 giugno 2010

È QUASI L’ALBA, DOTTOR SCHWEITZER!

di Lorenzo Fornasieri

Grande e triste, forte come una montagna, cristallino come un iceberg.

Un iceberg si vede da lontano e incute il senso del “sublime”: una paura misteriosa, troppo grande per noi, troppo ancora invisibile. Ciò che vediamo subito sulla superficie delle acque del sentire e pensare e fare umani, è l’amore per la musica che accompagnò per ottant’anni la lunghissima vita di Albert, senza mai divenire la sua occupazione principale. Quasi una seconda prima natura; quasi l’eco sensibile di un canto al lui stesso incomprensibile.

Che cosa ci nasconde dunque o a che cosa ci invita questo grande del secolo passato? Egli che ebbe come “punti di applicazione” della suia straordinaria energia la filosofia, la teologia, la musica, la medicina?

Mi si permetta qui un cenno autobiografico. Ero poco più di un ragazzo quando “incontrai” Albert Schweitzer per la prima volta vedendolo (per caso?) in una bellissima intervista televisiva, condotta da Sergio Zavoli. Il grande Dott. Schweitzer era nella sua missione di Lambarenè. Era il Luglio del 1965. Le note della “Toccata e Fuga in re minore” sottolineavano i dialoghi. Ricordo che in quei giorni corsi da padre Alberto Fontana, organista a Santa Croce in Milano, (sarebbe partito per la Costa d’Avorio all’età di 47 anni), per farmi mostrare quella partitura: mi aveva affascinato e dovevo suonarla anch’ io. Qualche mese dopo, infatti, mi chiesero senza mezzi termini di accompagnare le messe: avevo quindici anni ed ebbi l’onore di suonare il Balbiani-Vegezzi-Bossi di 1800 canne da poco installato in Santa Croce. Più tardi avrei sempre suonato quella Toccata all’ingresso della sposa, in ogni celebrazione di matrimonio, sorprendendo un poco i vari celebranti, che però forse vi sentivano l’inizio di una vita nuova…

Nell’intervista citata mi colpì, oltre allo stanco camminare del novantenne Dottore fra i “viali” del suo ospedale, una frase: Sergio Zavoli gli domandava, alludendo alla conclusione della mirabile vita (che poi sopraggiunse in ottobre): «Le sembra di aver speso bene la sua vita?» il Dottore rispondeva: «Prima di tutto spero di averla spesa». Mi affascinò questa risposta (eravamo tutti un po’ kantiani): ora riconosco che fioriva su una vita spesa sperando che questo imperativo categorico fosse accetto al Cristo, sempre più lontano nella storia, sempre più irraggiungibile e impossibile contemporaneo come Gesù di Nazaret.

Di qui l’animo grande e triste di Schweitzer, che però è l’ animo vero del grande organista e amante di Bach. Del grande di Eisenach l’ alsaziano Schweitzer dice : “…in lui c’è una tristezza profonda e un sognante misticismo”. E siamo all’ inizio di più strade: parliamo del teologo, del pastore che teneva i sermoni sulla intangibilità della vita anche nelle sue forme più tenui, riflettendo sul comune sentire delle religioni -specie orientali -nella Strasburgo del primo dopoguerra? Parliamo del filosofo incantato da Kant ma debitore, forse inconsapevole, della Sinistra hegeliana fino a negare una possibile vita di Gesù come nostro contemporaneo, come il Cristo di una fede storicamente e storiograficamente possibile? In fondo

l’ impegno teoreticamente principale di Schweitzer fu nell’ analisi delle vite di Gesù redatte in area per lo più germanica tra il 1750 e il 1890: dove si rileva ovunque una forzatura razionalistica per espungere il mi -racolo dall’ operare storico di Gesù. Si voleva vedere il progresso dell’ Idea del religioso ,che sarebbe caduto quale scorza mitologica (il messianismo giudaico) nella via della grande e ultima liberazione dell’ uomo . Questo è poi il nucleo dell’ ateismo del Novecento.Oppure parleremo del “ Musicista poeta” cioè di Bach secondo Schweitzer? O diremo di Sachweitzer organaro? O di lui come medico appassionato all’ umanità dolente dei fratelli nell’Africa della lebbra e di altre epidemie e piaghe devastanti specialmente i bambini?

Sulla teologia è stato redatto di recente un dossier su Humanitas del marzo 2009, dove illustri studiosi chiariscono le categorie così complesse che si delineano quando si voglia scrivere un vita di Gesù.

Qui, più semplicemente, si vuol dare un cenno su Bach secondo Schweitzer. In questo caso dire Schweitzer è come dire Bach: tutto il suo impegno di esecutore, di musicologo, di organaro (sic!) è imperniato sul grande di Eisenach. Questo fenomeno è peraltro abbastanza frequente: quando un musicista si addentra nello sterminato campo dei temi dei testi delle cantate dei concerti per violino solo, per cembalo e violino, decide benpresto di dedicarvi la vita.O ,per meglio dire, si rende conto che ne sarà presa la vita intera. Così con G. Gould, con il contemporaneo Brahmani, con la più grande pianista russa del Novecento , Maria Judina. In particolare quest’ ultima, prima di fede ebraica, poi cristiana, fu capace di incantare Stalin che fece il vien facile alzare lo sguardo a certi vertici. Bisogna dire che, pur avendovuoto attorno a lei uccudendo molti ma risparmiandola e tenendo care le sue incisioni. Judina fu interprete somma principalmente di Bach, ma grandissima anche in tutti gli autori che affrontò: sarà ricordata in varie occasioni in quest’anno 2010, anche al Meeting di Rimini ,con il contributo dell’ ultima sua discepola, la pianista Marina Drozdova.

In Schweitzer dunque un amore ai testi delle cantate, un percepire dentro quei testi biblici (rimaneggiati a volte non felicemente da Picander): Bach –ci dice Schweitzer- legge, sente, evoca delle immagini con occhi quasi di pittore. Tutto è sentito come da celebrarsi, come appunto sacro rito, liturgia. L’ appercezione del respiro religioso della Scrittura come appare nei testi suggerisce una costruzione architettonica. Archi, volte, cordoli,lunette, e ancora guglie, riccioli di marmo, icone, policromie di marmo…Bach porta a fioritura ogni germe che sorprende nei testi, quasi incarnandoli in sé (ma per noi – e qui è veo Maestro) . E’ uno sgorgare inesausto di temi che vengono cantati accresciuti, rivisitati. Bach, in fondo, respira del respiro delle Scritture e dell’ azione liturgica. Il ruscello ( Bach significa “ruscello” !) sembra zampillare di acqua sempre nuova che scende all’ oceano delle anime che verranno nei secoli per saziare la sete di bellezza.

Nel suo bellissimo libro Il Musicista poeta, Schweitzer enuclea una serie di immagini che si aprono in disegni e ritmi sul pentagramma e che attraverseranno tutta la sua musica e la sua vita: dai tratti giovanili ai momenti di splendida senilità.

I temi della calma, della goia, del tentennamento; i colpi della flagellazione, il tripudio (scalette ascendenti) degli angeli; il rantolare della morte ( sincopati descendenti). Il male come tradimento, come serpeggiare del serpente ( intervalli di seste puntate); il doloroso incedere di Cristo (scale discendenti) sul Calvario; il lamento degli amici sul Cristo morto (cromatismo discendente sincopato)…

Questi pochi esempi fanno dire a Schweitzer che c’è un unico respiro nella musica di Bach e un unico movimento in quattro tempi: l’ incarnazione, la passione,la discesa agli inferi e l’ esplosione della resurrezione. Ma se questo è l’ Evento centrale della realtà come tale, tutto il mondo , tutte le cose vi partecipano rivestendo la loro propria natura di colori e venature che hanno il sapore e il disegno sempre nuovo della natura: la primavera, i fiori, il galoppo della partita di caccia, lo sciacquio delle acque, la luminosità di un vestito di sposa… Bach scrive anche cantate “profane”: sono in realtà celebrazioni di tutto lo spettro dell’ umano, così che non c’è nulla di non sacro: tutto è sanabile e salvo, fino a una celebrazione cosmica anche delle munuzie.

Bach è “il Musicista pittore”: con la sua tavolozza dipinge l’ ora della sera, la forza giovanile dela primavera, l’ inverno e la morte dell’ anno vecchio subito risonante della baldanza dell’ anno nuovo; le onde del Giordano, la calma placida del lago di Tiberiade con i rintocchi delle ondine sulla spiaggia…

Schweitzer fu bersagliato dalla critica formale, che vedeva il “ bello musicale” come assolutamente staccato da ogni dinamica del sentimento: ma come chiedere questo astrattismo a chi vive e sente profondamente le problematiche esistenziali della teologia luterana? Del resto l’ anima tedesca è fondamentalmente sentimento: lo rivelerà la tempesta del romanticismo. Si critica questo voler vedere quasi sempre un Bach descrittivo. Eppure il fluire della musica europea stava passando dal melodramma, attraverso Beethoven e Brahms alla tragigità wagneriana e alle coloriture pre impressionistiche di Lisz. Bach dolcissimo e appassionato nelle arie (troppo italiane dice Schweitzer) rimane un architetto ben fornito di matematica e compassi…) Eppure anticipa soluzioni rivoluzionarie che penseremmo solo inaugurate dal genio irrequieto e irrisolto di Beethoven: il compositore delle cantate comincia dei brani su un intervallo armonico di settima!...

Bach contempla ciò che avviene: la redenzione è una ristrutturazione delle cose attraverso l’ edificazione di un nuovo universo. Lo stesso desiderio della Morte (“Vieni, dolce morte) non è disfatta dell’ impresa umana , ma sospiro del compimento. Da questo punto di vista sarebbe interessante confrontare questi passaggi della consegna di sé stessi(”vieni dolce morte”) con la rabbiosa pretesa di chiamare dolce morte l‘eutanasia…

Questa ristrutturazione del reale corre come una nuova strada fianchegiata dai 48 tigli delle 24 coppie di preludi e fughe che presentano al mondo la nuova musica: il temperamento equabile: il clavicembalo ben temperato. E’ la strada indicata che immette nell’ orecchio naturale dell’ uomo un sentire nuovo con una leggera forzatura che apre alle cose nuove: una spinta al desiderio di infinito con appunto la nostalgia inesausta della Totalità. Il sistema ben tempreato, non è perfetto, ma questa sua ferita corrisponde perfettamente alla nuova accelerazione che la storia subisce nella liturgia cosmica cui sopra si accennava..

Bach conosceva bene le problematiche della teologia luterana, eppure si impegna a riscrivere le parti comuni della messa cattolicain latino, accogliendo il sapore di alcuni intevalli dei modi gregoriani; mostrandoci che la musica, il canto non sono cattolici o protestanti, perché è la persona stessa che sente, vive e soffre e il Cocifisso parla a tutti.

Schweitzer organaro ? La passione per lo strumento principe della liturgia lo portò a guardare, smontare, restaurare: fu chiamato in vari Paesi per consulenze sul restauro e sul perfezionamento degli organi:.Questo mettere le mani nei mantici, sui tiranti, nelle ance ,sui somieri; questo reinventare le disposizioni foniche e raffinare i timbri era un sentire la materia che doveva far cantare la musica di Bach. Questi aveva sognato uno strumento che avesse del violino il fraseggiare, dell’ organo le varietà timbriche e la potenza, del clavicembalo la brillantezza;Avrebbe sognato un cassa dell’ espressione (Che fu fabbricata nel romanticismo). Il violino rera il termine di assoluto paragone: nei concerti per violino quante sono le note in triadi o più formazioni di accordo (si pensò ad archetti speciali) Bach come uno scriba che trae dal suo tesoro cose vecchie e cose nuove? Che l’ arte fiorisca sulla materia e dalla materia quale disegno di ciò che l’ anima umana vi appercepisce è vero: è realismo come ricerca di una personalizzazione della materia stessa.Un cogliere la stessa come signata quantitate meae humilitatis: materia che porta la cifra del mio umile abbassamento ad essa, come de-vozione di essa, come offerta a Dio creatore di ciò cho io manipolo, del mio gesto poetico (poiesis) .Materia creata per il canto , per composizioni che pervadano l’ umano in tutte le sue pieghe e sfaccettature. Tutto diviene canto sel’ intenzione è mettere il proprio talento a gloria di Dio: S.D.G. . Soli Deo Gloria era la formula che Bach apponeva al termine di ogni sua opera.

Il Musicista poeta rimane un testo basilare per tutta la critica e la riscoperta di Bach fino alla filologia più rigrosa. Fu scritto nel 1905 al termine di un lungo processo: la prima ricoperta del Kantor ad opera di Mendelsohon. Lì era un sentire in chiave moderna: con la sensibilità e la strumentazione romantica e post-romantica. Come a dire: partiamo sempre dall’ oggi, dall’ uomo vivo che respira, soffre,opera nel suo esser-gettato nel mondo e vuol rivelare i grandi rivivendoli.

Si aprirebbe qui un grande discorso sulla musica sacra e gli strumenti da usare nella liturgia: espressione e geometricità si devono coniugare nella costruzione ad esempio di nuovi organi, che abbiano i timbri di questa grande tradizione tedesco-francese- italiana. Certi eccessi di rigore per la costruzione di strumenti

d’ epoca non tengono conto che anche le cose sono in qualche modo offerenti, pazienti interpreti dell’ offerta liturgica. L’ organo in una chiesa non è mai uno strumento a sé stante a d uso solo di concerti; tra l’ altro la quasi totalità della musica per organo è sacra…

Se Schweitzer accosta Bach, padre della musica, a Michelangelo, noi potremmo dire che Bach è il maestro di color che cantano; mentre Schweitzer è maestro di color che imparano. In tutto ciò cui si applicò, cercò di studiare indagare, cercare tutto con un’ intransigenza sistematica veramente germanica, anche se –da alsaziano- dice di dover parlare e scrivere e pnsare in due lingue…Alla fine della guerra (fu anche prigioniero) gli cambiarono nazionalità; e fu francese…

Quest’ ultimo accenno all’ arte organaria vuol essere una voce per una ripresa della costruzione di splendidi strumenti liturgici nonchè di restauro accurato delle centinaia di organi che da anni sonnecchiano nella polvere di tante chiese. E’ necessaria maggior pratica musicale nei seminari, diffusione della musica sacra e organistica fra i giovani mediante concerti supportati da spiegazioni e introduzioni ad un mondo stupendo, ma molto dimenticato per via di una trascuratezza non certo imputabile allla Riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Il dialogo con il mondo contemporaneo passa in modo privilegiato attraverso l’ arte: quanti musicisti tornerebbero alla viva Fonte del Bello in un percorso che è il talento che si trovano per le mani!

domenica 9 maggio 2010

Vasilij Grossman: un raggio di luce nel grigiore sovietico

di Pigi Colognesi

Una mostra e un convegno celebrano l’opera dello scrittore russo. Un’occasione inaspettata per un centro culturale cattolico e una fondazione ebraica

Torniamo ancora una volta su Vita e destino di Vasilij Grossman. Molti di noi l’hanno avuto tra le mani quest’estate. Magari qualcuno ha ceduto le armi prima della fine, sopraffatto dalla mole e dalla complessità; qualcun altro si è commosso per una delle mille storie che compongono la trama del romanzo. I più tenaci hanno portato a termine la lettura, altri conservano solo il ricordo di qualche luminoso brandello. Tutti abbiamo capito che il romanzo di Grossman è una miniera dai mille filoni diamantiferi. E vorremmo capire meglio e di più.
Un passo fondamentale nella comprensione lo si può fare andando a Torino. Fino al 26 febbraio resta aperta la mostra organizzata dal Centro culturale Frassati e dalla Fondazione Arte Storia e Cultura Ebraica di Casale Monferrato, presso il Museo Diffuso della Resistenza di corso Valdocco. Gli stessi che hanno anche promosso un convegno internazionale, svoltosi lo scorso 12-13 gennaio. Solo tre spunti per invogliare a continuare la ricerca nella miniera di Vita e destino.

Itinerario alla positività

Appena si entra nella sede della mostra ci si trova di fronte alla ricostruzione della famosa “casa 6/1” e un video tuffa il visitatore nella vicenda che ha come protagonisti il generoso capitano Grekov, il soldatino Serëza e la telegrafista Katja. I due giovani si innamorano, ma la ferrea legge della gerarchia assegnerebbe la ragazza al comandante. Il quale però… Inizia così il filo rosso di uomini che compiono gesti che ogni calcolo puramente “logico” farebbe escludere; gesti di bontà inattesa, di libertà apparentemente controproducente, di razionalità che eccede il buon senso. Un filo rosso fisico conduce poi il visitatore su per le scale fino alla mostra e prosegue su ogni pannello. Cosa rappresenta quel filo rosso? È l’idea interpretativa forte che ha animato gli organizzatori: la storia umana, qualsiasi storia umana anche la più tragica (e quella raccontata da Grossman - la battaglia di Stalingrado, le violenze speculari dei totalitarismi - è tra le peggiori che siano occorse all’umanità), è un itinerario che apre misteriosamente a una positività ultima. Lo intuiscono i personaggi del romanzo, quando non si rassegnano a perdere la propria dignità di fronte alla sopraffazione, quando non accettano che la menzogna sia l’ultima parola. Lo ha intuito e vissuto lo stesso Grossman, quando ha voluto scrivere queste pagine e consegnarle ad amici perché le salvassero dalla condanna decretata dal Kgb; la rocambolesca vicenda del manoscritto è raccontata al termine della mostra in un bellissimo video.

Recupero della memoria

Secondo spunto. Ha colpito molti dei relatori stranieri che mostra e convegno fossero organizzati congiuntamente da un centro culturale cattolico e da una fondazione ebraica. Certamente il fatto che Grossman fosse ebreo è una ragione. Ma le cose stanno più in fondo. Claudia De Benedetti, anima della fondazione ebraica di Casale, è entusiasta dell’iniziativa. Dice che è fondamentale per le giovani generazioni (settore di cui si occupa come Consigliere nazionale dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane) il recupero della memoria. Non un recupero statico né, tanto meno, rivolto al passato. La memoria, infatti, è solida base per proiettarsi al futuro: nell’umanità di chi ha sofferto senza rinnegare la propria dignità sta una saldo fondamento per costruire. Nessuna difficoltà nel fare una iniziativa del genere con un gruppo cattolico? Nessuna, risponde; anzi, è l’inizio di tante altre cose che si possono fare insieme. Ha addirittura in mente di portare la mostra a Gerusalemme ed è tanto convinta del valore di questa collaborazione che racconta divertita e compiaciuta di quel relatore inglese che le ha chiesto: «Lei è della fondazione Frassati di Casale?». Nel lapsus che ha confuso il centro culturale cattolico torinese con l’organizzazione ebraica casalese da lei guidata intravede il simbolo di una unità che deve proseguire.

Viaggio di un manoscritto

Terzo spunto. A metà della tavola rotonda finale, chiede la parola il vecchio professore russo Sarnov; dice che per loro Vita e destino era stato come un raggio di luce nel grigiore sovietico, ma il manoscritto venne sequestrato e fu «come se avessero strozzato Grossman e la nostra speranza». Poi vennero a conoscenza che il manoscritto era giunto in Occidente. Allora la speranza rifiorì. Ma nessuno voleva pubblicare il romanzo e fu «come se avessero strozzato Grossman per una seconda volta». Poi Sarnov si arresta, si volta verso il tavolo dei relatori, dove siede Vladimir Dimitrieviã che ha pubblicato il romanzo nel 1980, e dice: «Ma c’è stato un uomo che ha avuto il coraggio di stampare Vita e destino e io - addita Dimitrievic, trattenendo a stento le lacrime - vorrei ringraziarlo». Spontaneamente tutti i convegnisti applaudono. E tu pensi che razza di esperienza di libertà è stato per migliaia di persone imbattersi in Vita e destino. E ti viene voglia di rileggerlo.

Tratto da Tracce N.2, Febbraio 2006

lunedì 5 aprile 2010

THE HURT LOCKER

Un Oscar per gli artificieri della guerra in Iraq

di Antonio Autieri


Il ritorno di Kathryn Bigelow all’eccellenza cinematografica meritava migliore attenzione, sia alla Mostra di Venezia dove era in concorso nel 2008, che nei cinema, dove è praticamente passato inosservato. Ed è un peccato, perché il film è una riflessione sulla guerra che spiazza. Senza dimenticare di fare grande cinema, con tutti gli strumenti che ci si aspetterebbe da un film di guerra: azione, tensione, ritmo, capacità di suscitare angoscia e pietà.
La regista di Point Break e del capolavoro Strange Days (è da allora, dal 1996, che rimpiangiamo il suo talento: l’ultimo suo film, K-19 su un sommergibile sovietico guidato da un improbabile Harrison Ford, non lasciò traccia) osserva dunque le azioni di un piccolo gruppo di soldati in Iraq, la cui missione è sgombrare il terreno da ostacoli e pericoli di ogni genere. Dalle automobili di potenziali kamikaze o dai cecchini che si possono nascondere ovunque, ma soprattutto dalle bombe che spuntano ovunque, addosso a persone vive o anche morte (perfino poveri bambini) o ben nascoste sotto il terreno, nelle case, dentro le auto… In effetti, il protagonista principale è proprio il nuovo capo dell’unità e sminatore o artificiere di grandissima professionalità, il sergente William James arrivato a sostituire - con un record incredibile di bombe disinnescate, oltre 800 - il predecessore Thompson (un cameo del noto Guy Pearce, che muore pochi secondi dopo la sua apparizione). Un capo che non si fa molto amare dai propri sottoposti, perché il suo coraggio sfiora spesso l’incoscienza e sembra esporre la truppa a inutili rischi. La guerra, o meglio il pericolo, è per lui diventata una droga di cui non può fare a meno («La furia della battaglia provoca una dipendenza fortissima e spesso letale, perché la guerra è una droga» recita una frase all’inizio del film). Tanto da conservare con cura maniacale e un po’ morbosa i pezzi delle bombe che avrebbero potuto ucciderlo. E da non saper tornare alla normalità, una volta tornato a casa. Ma forse c’è dell’altro, c’è anche il senso di una missione, una vicinanza a gente che soffre e che pure non ama gli “invasori” yankee. Perché nel film della Bigelow (che è tratto dalle cronache dell’inviato di guerra Mark Boal) c’è spazio anche per una tenera amicizia con un ragazzino che contribuirà a cambiare l’approccio di James, sempre spericolato ma più sofferente.
The Hurt Locker (letteralmente “la cassetta del dolore”, dove finiscono i resti di chi salta per aria per l’esplosione di un ordigno) ha diviso critica e pubblico che lo hanno interpretato in maniera diametralmente opposta: a chi lo trova un ambiguo affresco di una guerra da cui la regista non sa prendere le distanze, nell’esaltazione dell’eroismo di soldati simil Rambo, si contrappone chi vede nel film un atto d’accusa contro tutte le guerre. Ha fatto specie, a Venezia, leggere accuse a Kathryn Bigelow per il fatto di aver realizzato un film filo-Bush, da lei fieramente attaccato in interviste e conferenze stampa. Per lei l’Iraq è un tragico errore. Ma l’aver descritto i soldati americani - o almeno, “questi” soldati e non altri - come persone che cercano di fare il proprio dovere, rispettando un popolo che spesso non li ama e cercando di salvare anche chi cerca di ucciderli, questo non è politicamente corretto. E spiega tante, ingiuste, cattiverie su un film che - per le ottime qualità cinematografiche e per una rappresentazione dell’umano dolente e rispettosa - sarebbe un vero peccato perdere.

Miracolo a metà

di Luca Doninelli

Un film racconta la guarigione di una ragazza paralizzata. E piace ad atei e credenti. Ma nasconde un’ambiguità: la fede non c’entra in nulla. Ecco cosa succede quando non accettiamo il rischio di essere cambiati da ciò che facciamo

Dopo aver visto Lourdes, il film di Jessica Hausner, e averci pensato quanto basta per non dire solo quello che l’istinto mi suggerisce, ammetto che non so bene cosa dire.
Non che abbia le idee confuse. È che raccontare storie è una cosa molto difficile, e tante volte uno non lo sa e si mette a raccontare lo stesso, e per un po’ gli va bene, e riesce a produrre anche delle belle scene. Poi non sa bene come andare avanti e s’impantana, comincia a pasticciare, allora si aggrappa al già detto e al già sentito (anche in senso stilistico).
Non riassumere la storia è impossibile. Non è gentile verso chi ha voglia di vedere il film, ma almeno per linee generali occorre farlo.

La scoperta di Christine. Un gruppo di pellegrini va a Lourdes. Tra questi Christine, una ragazza affetta da sclerosi a placche, da anni costretta all’immobilità. Non è molto entusiasta del viaggio, preferisce le escursioni “culturali” come Roma. La sua assistente è una birichina cui piace più scherzare coi ragazzi che assistere i malati. Anche a Christine piacerebbe, ma non può. E se ne lamenta con un prete: perché proprio io?
In sua compagnia ci sono altre persone interessanti. Una è un’anziana che vuole guarire da una grave malattia e chiede a un prete come fare, sentendosi rispondere che è un problema di atteggiamento spirituale. C’è poi Cécile, la capogruppo, una donna giovane molto severa, che bacchetta la leggerezza delle ragazze e ricorda che dobbiamo pregare per l’anima e non per il corpo. Cécile in realtà è malata gravemente, e questa sua scissione dell’anima, che la rende rigida e infelice, si rivelerà presto anche nel corpo.
Una mattina, imprevedibilmente, Christine scopre di potersi muovere, si alza. I medici ammettono che si tratta di qualcosa di più di una semplice remissione del male. Lei legge questa guarigione come la possibilità, finalmente, di fare qualcosa di piacevole, come mangiare da sola una coppa di gelato, immaginare un futuro per sé e innamorarsi di un Cavaliere di Malta che si trova nel suo stesso gruppo.
Il finale è lungo e privo d’idee. Prima Christine e il giovane si baciano, poi c’è una festa da ballo e lei vuole ballare, poi cade per terra ma si rialza da sola, e alla fine - più per un moto di perplessità che per una recrudescenza della malattia - finisce per risedersi sulla sedia a rotelle, mentre tutti cantano Felicità di Al Bano e Romina.

Freno tirato. La Hausner è brava nel creare il ritmo del film, ci sono scene comiche e tutto sommato ci si diverte. Lo spettatore prende spontaneamente le parti della ragazza, non solo perché l’attrice, Sylvie Testud, riesce a trasmettere bene lo spaesamento del personaggio, ma perché è chiaro che il miracolo premia la sua voglia di vivere la vita fino in fondo.
Alla fine, però, la Hausner non riesce nell’intento: per farlo avrebbe dovuto liberarsi di certi modelli (in primis Luis Buñuel), che impongono ai fatti schemi troppo rigidi. La regista non segue fino in fondo il paradosso che a un certo punto sembra voler uscire dalle sue mani e si accontenta di una storiellina abbastanza atea e di gusto surrealista. Dico “atea” non tanto perché la Hausner sia atea dichiarata, ma perché le cose si fermano un po’ a metà, segno che la storia viene raccontata con il freno a mano tirato.
Si ferma a metà Christine, che ottiene il miracolo senza in fondo sapere che farsene: si ferma all’idea che adesso potrà realizzare i suoi sogni, o qualcosa di simile, e tant’è. Non vuole guardare fino in fondo come stanno le cose: non perché la regista voglia rappresentare un caso d’incertezza, ma perché incerta è la regista stessa, che si ferma anche lei a metà, proprio dove avrebbe potuto sferrare l’attacco finale: una preghiera, o anche una bestemmia... Qui sta il sostanziale fallimento del film, e su questo sono d’accordo con il giudizio di Vittorio Messori.
Certo che pure la Chiesa si ferma a metà (anche un po’ prima) e non esce molto bene dal film. Chi può trovare affascinante il cristianesimo quando le risposte dei suoi rappresentanti sono sempre così complicate e così poco pertinenti con l’urgenza delle domande? A un malato di cancro che urla a Dio che lo liberi dal male non si può rispondere che occorre, prima, un percorso per aprirsi alla Sua volontà affinché guarisca l’anima e dopo, semmai, lenisca le sofferenze del corpo.
Non che siano dette parole sbagliate: quello che manca sono gli uomini. Qui le parole della fede volano un po’ distratte qua e là, prendono corpo in voci che appartengono a persone che pensano ad altro: al futuro, all’amore, alla ragazza, tutte cose bellissime ma che il film ci presenta sempre come altro rispetto alla fede. La fede non c’entra mai: «Non bisogna mai esagerare», dice una signora che si era chiesta perché fosse stata miracolata proprio questa ragazza poco religiosa.

Uguali a prima. Insomma, l’idea che una tipa così guarisca a Lourdes non era brutta, anzi. Il problema è che, per realizzarla, un artista deve accettare dei veri rischi, e il primo è quello di essere cambiato da ciò che fa. E questo lo obbliga a prendere molto sul serio la fede. Qui, tutto sommato, di fede ce n’è poca. C’è solo una modernità malata, questo sì, oscillante tra il “credere di credere” e l’aperto scetticismo. E che alla fine, a dispetto del miracolo (cui nemmeno Christine sembra credere più), se ne torna a casa uguale a come era venuta.
Se la Hausner ci avesse raccontato tutto ciò con mano ferma, facendo proprio fino in fondo l’atteggiamento irridente dell’amato Buñuel, alla fine il film sarebbe risultato più apprezzabile. Invece si è persa. Ma proprio questo, paradossalmente, le ha portato fortuna, producendo un’ambiguità che alla fine ha reso gradito il film agli atei come ai cattolici: ciascuno ha potuto vederci quello che voleva.

Lo sguardo di Giotto

di Alessandra Gianni

I santi e i poveracci. Le immagini sacre e le scene di lavoro nei campi. E poi la prospettiva, le tre dimensioni, il volume... Indagine su quella «passione per ogni aspetto della realtà, fino al dettaglio» che ha permesso al grande pittore di rivoluzionare la storia dell’arte. Come si vede nell’esposizione in corso a Roma

«Credette Cimabue ne la pittura /tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, /sì che la fama di colui è scura» (Purgatorio, XI, 94-96). Ma in cosa consistette la grandezza di Giotto così esaltata già dai suoi contemporanei, come dimostrano i versi danteschi, oltre che le innumerevoli commissioni in tutta Italia e l’immediata ricezione delle sue novità nelle scuole pittoriche attive nei centri dove veniva chiamato a lavorare?
Una buona occasione per rispondere a questa domanda arriva dalla mostra in corso al Vittoriano di Roma. Con circa venti opere di Giotto (1267circa-1337) e della sua bottega, settantasei dipinti su tavola e ad affresco, ventiquattro codici miniati oltre ad alcune sculture (un brano di scultura gotica francese, Arnolfo di Cambio, Nicola e Giovanni Pisano e il ritratto di Enrico Scrovegni) e a oggetti di oreficeria, l’esposizione offre la possibilità di vedere un cospicuo gruppo di opere realizzate tra la fine del Duecento e la seconda metà del Trecento che documentano proprio la svolta impressa alle arti figurative dall’irruzione delle novità giottesche.
Giotto introduce in pittura la passione per ogni aspetto del reale descritto così come veniva percepito, con grande attenzione ai dettagli, all’uso e alla struttura. Anche se la verosimiglianza e il naturalismo non possono essere indicati come valori assoluti per la valutazione di un’opera d’arte, è evidente che tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, Giotto seppe interpretare l’esigenza spirituale nuova di veder rappresentati non soltanto le figure sacre in vesti e atteggiamenti umani, ma anche il mondo naturale e gli ambienti.

Verbo e dignità. Da quando il Verbo si è fatto carne, da quel momento, tutto ciò che era quotidiano, carnale, piccolo, vile assume una dignità infinita. Questo spiega tutto: la rappresentazione del lavoro nei campi accanto alle immagini di Dio nelle chiese romaniche; le scene con i poveracci, gli ammalati guariti da Cristo, le barche, le reti, gli strumenti di tortura, i brutti ceffi nei cicli dei santi; il Cantico delle Creature e la Divina Commedia. Questo spiega anche la rivoluzione di Giotto. La rappresentazione del dato naturalistico era stata anticipata dalla scultura gotica francese e dagli scultori della corte di Federico II in Puglia, e quindi da Nicola Pisano, già entro la metà del Duecento; ma la pittura rimaneva condizionata alla osservazione di autorevoli e antichi modelli bizantini fino a Giotto. Egli introduce la tridimensionalità. Le figure e gli oggetti, rappresentati con un forte senso del volume, vengono inseriti all’interno o sullo sfondo di strutture architettoniche, spesso riprese da edifici gotici realmente esistenti, disegnate in scorcio secondo un tipo di prospettiva empirica - cioè non ancora studiata scientificamente, come avverrà nel Quattrocento - che veniva utilizzata nella pittura romana antica e che era stata totalmente abbandonata durante tutto il medioevo. Una delle più incredibili rivoluzioni iconografiche e stilistiche fu realizzata dal pittore nella croce giovanile di Santa Maria Novella a Firenze.
Fino a Cimabue il corpo di Cristo morto, incurvato in maniera fortemente drammatica ma innaturale, era descritto con le fasce muscolari dell’addome e degli arti suddivise schematicamente in zone delimitate da linee scure; in questa croce dipinta Cristo è investito da una luce che piove dall’alto, cade sulla testa e percorre tutto il corpo rappresentato in maniera naturalistica, sia nella postura che nella struttura scheletrica e muscolare attraverso trapassi sfumati tra le zone in luce e quelle in ombra. La riscoperta del naturalismo, recuperato anche attraverso lo studio delle sculture antiche, si traduce nella pittura giottesca non solo nella resa oggettuale dei corpi e delle cose, ma anche nel ritorno alla intensa espressività. Si rappresentano di nuovo gesti vivaci, i sorrisi e le figure viste di profilo; questa inquadratura era stata riservata fino ad allora simbolicamente al demonio mentre le figure dei sacri personaggi venivano rappresentati frontalmente, cioè “in maestà”. Bellissimo, allora, il profilo di Cristo nella scena del Bacio di Giuda della Cappella degli Scrovegni.

Il polittico di Badia. Tra i polittici di Giotto quello di Badia, restaurato da poco, svela dettagli inediti, non leggibili nel precedente stato, come la mano di Gesù Bambino che entra nello scollo della madre e tira la veste increspandola. Maria assume i tratti di una donna corpulenta vestita con abiti popolani che sostiene tutto il peso del bambino che si slancia affettuosamente verso di lei sorridendole. Una Madonna di Cimabue che tiene in braccio un bambino giottesco corpulento e agitato esemplifica la svolta naturalistica impressa da Giotto. È possibile vedere da vicino il Dio Padre sul trono dipinto su uno sportello collocato sull’arco trionfale della Cappella degli Scrovegni.
Una delle opere più belle e più fruibili, anche grazie al perfetto stato di conservazione, è il Santo Stefano Horne, collocato nella produzione tarda di Giotto che dialoga con il principale concorrente del tempo, Simone Martini, assai richiesto in Italia e all’estero per la sua pittura raffinata ed elegante, vicina al linguaggio gotico francese. Nel Santo Stefano Giotto risponde al pittore senese, esibendo una pittura preziosa nella bellissima dalmatica bianca decorata con balze operate in oro; nel drappo di seta verde, cangiante in giallo nelle parti colpite dalla luce, che copre il volume sorretto dal santo diacono con una mano scorciata in modo così moderno da preannunciare Masaccio.

L’imitazione. L’improvvisa e irrevocabile svolta nella pittura provocata da Giotto fu subito registrata e imitata dai pittori e dai miniatori delle città nelle quali fu chiamato a lavorare: Assisi, Roma, Firenze, Rimini, Padova, Napoli, Milano. Un’intera sezione della mostra è dedicata ai codici miniati di diversa provenienza. Una fra le più precoci scuole pittoriche influenzate da Giotto fu quella dei pittori riminesi, presente in mostra Pietro da Rimini con la bellissima Deposizione, che documentano il contraccolpo subito dai pittori locali che andavano a vedere Giotto all’opera nella chiesa di San Francesco, trasformata nel Quattrocento nel Tempio Malatestiano. Vi sono tavole e affreschi di pittori attivi in Umbria, Roma, Napoli, Milano e Padova, fra questi il grande Altichiero, oltre che i giotteschi fiorentini delle varie generazioni: da quelli che lavoravano con Giotto a quelli attivi nella seconda metà del Trecento come Giottino, presente con il bellissimo tabernacolo ad affresco, capolavoro dell’artista che, sviluppando le premesse giottesche, seppe rendere la superficie materica delle cose come gli incarnati lievemente arrossati sulle guance, la morbidezza del drappo, appeso allo schienale del trono, nel quale gli angeli affondano le dita. Non mancano i pittori senesi che dialogarono con Giotto, in particolare Ambrogio Lorenzetti attivo anche a Firenze e il fratello Pietro che lavorò nella Basilica Inferiore di Assisi su pareti adiacenti a quelle affrescate pochi anni prima da Giotto.

Giotto e l'enigma di Isacco

Giuseppe Frangi
Storia di un affresco che per gli esperti è sempre stato un giallo. E di alcuni studi in grado di smentire quanto si pensava finora. Rivelando un genio che per esprimere la fede ha compiuto una rivoluzione
«Una nostra amica di Madrid, che sta a Roma adesso, mi ha mandato un particolare (di Giotto; ndr) della Maddalena che incontra il Signore risorto: la Maddalena si slancia verso di Lui per prenderlo e Lui fa: “Un momento non toccarmi, perché non sono ancora salito al Padre mio”. La foto riprende le due mani della Maddalena e la mano di Cristo: è una cosa bellissima perché non c’è nessun altro contenuto: ci sono le due mani della Maddalena lanciate così e la mano di Cristo che segna il confine. È una soglia: la soglia è il termine di un cammino e l’inizio di un’altra modalità di cammino. Uno “vive” venti chilometri per andare a casa; quando arriva sulla soglia della casa, vive in un altro modo (a casa si vive in un altro modo). Nei venti chilometri prima, doveva subire il freddo, la fame, la sua stanchezza; la casa è la dimora».
(Luigi Giussani, Vivendo nella carne, pp. 323-324)

La prossima volta che avrete la fortuna di visitare la Basilica Superiore di Assisi, dovrete affrettarvi alla terza campata della parete destra. Perché lì, in quei due riquadri in alto, divisi dalla lunga finestra ad ogiva, c’è l’inizio di tutto. Spieghiamoci: i due riquadri rappresentano la scena della Benedizione di Giacobbe, eccezionalmente divisa in due frames. A sinistra si vede Isacco, cieco e morente, che benedice appunto il secondogenito Giacobbe. A destra, invece, respinge il povero Esaù, vittima dell’inganno orchestrato dal fratello e dalla madre Rebecca. Sui libri di storia dell’arte queste due scene di eccezionale bellezza sono sempre state catalogate come opera di un non meglio specificato “Maestro delle storie di Isacco”. Per ragioni stilistiche, oltre che tecniche (sono nel registro alto e quindi nella lavorazione sono certamente precedenti rispetto agli affreschi più celebri con le Storie di San Francesco), i due riquadri sono i più antichi tra quelli della navata di Assisi.

“O” come originale
Ma è tale la loro qualità, e soprattutto la loro modernità, da rappresentare un vero mistero attorno al quale generazioni di studiosi si sono spaccati la testa. Sino a che qualcuno, come il grande critico Luciano Bellosi, ha rotto gli indugi e ha avanzato l’unico nome sostenibile per un tale capolavoro: Giotto. Tutta la sua riflessione è stata raccolta pochi mesi fa in un libro dal titolo magnifico (E i vivi parean vivi, tratto dal versetto di Dante, nel canto XII del Purgatorio), in cui ripercorre il cammino che l’ha portato a smentire l’ipotesi sostenuta negli anni Novanta da Federico Zeri, il quale, invece, era convinto che tutto il ciclo della navata di Assisi fosse da attribuirsi a un maestro romano della cerchia del Cavallini.
Oggi, però, l’ipotesi di Bellosi trova conferma in un nuovo bellissimo libro, appena pubblicato da Electa, e scritto da Serena Romano, una studiosa che come pochi altri conosce il cantiere di Assisi (La O di Giotto, Electa, € 38,00).
Ma torniamo su quei due riquadri. Siamo nell’ultimo scorcio del 1200. Il cantiere architettonico della Basilica è concluso e tocca a papa Niccolò IV, il primo francescano a salire al soglio pontificio, avviare i lavori per gli affreschi. Non ci sono documenti, ma il gioco serrato delle date non lascia molti dubbi. Agli inizi degli anni 90 viene montato il ponteggio e su quella navata di destra sale un maestro che intraprende qualcosa di assolutamente nuovo, sotto ogni profilo. Anche quello tecnico. Infatti per la prima volta la stesura dell’intonaco, sul quale il pittore interveniva appunto dipingendo “a fresco” (quindi nell’arco di una giornata), non avviene un po’ astrattamente dall’alto in basso a fasce (o “pontate” come recita il termine tecnico): il maestro impone che l’intonaco segua i perimetri delle figure, dimostrando quindi una conoscenza approfondita delle tecniche degli antichi. La stesura dell’intonaco deve seguire le necessità espressive dell’artista e non più viceversa.
È anche un maestro dalle idee molto chiare, perché conclude il lavoro in due settimane: sono rispettivamente sei e sette le giornate lavorative che si possono ricostruire proprio seguendo le stesure degli intonaci. È, infatti, icastico e insieme grandioso lo sviluppo narrativo, che come scrive giustamente la Romano, «mette in scena il primo dramma psicologico della pittura medievale» e ingloba per la prima volta «l’elemento “tempo” nella narrazione». Isacco steso nel grande letto, dentro una stanza che è un ambiente di eccezionale oggettività e profondità spaziale, con gli occhi realisticamente incrostati dalla forma di cecità che l’aveva colpito, è protagonista silente e inconsapevole delle due scene. A sinistra, un’ancella lo sostiene nella fatica di sollevarsi dal letto. A destra, sembra quasi ricadere all’indietro per scartare l’offerta di Esaù. Ma la regia delle due scene è tenuta da Rebecca: che a sinistra è osservatrice apprensiva dell’inganno orchestrato con Giacobbe. Mentre a destra scappa dalla stanza, completamente avvolta nel mantello, sorpresa di spalle in un brano di racconto pittorico di una sintesi e di una modernità che lasciano a bocca aperta.

L’esplosione di Padova
Ovviamente la domanda che a questo punto ognuno si pone è quella fatidica: che cosa porta a dire che queste due scene siano di Giotto? È lo scavo nella forma mentis dell’artista che porta la Romano alla certezza. Nelle due Storie di Isacco infatti si trovano, in forma di invenzione, tantissimi elementi che Giotto maturo farà “esplodere” negli affreschi di Padova, più di dieci anni dopo. Sono tanti e davvero affascinanti questi elementi di coincidenza profonda. Uno in particolare: quello del “gesto”. Giotto mette spesso un gesto, emotivamente potente, come perno delle sue composizioni. Nelle due Storie sono le mani, icasticamente isolate sul fondo rosso del tendaggio che chiude la stanza di Isacco. Ed è la stessa potenza semplice e densa che ritroviamo nella mano di Cristo, che si staglia sul blu del cielo nella scena dell’Ingresso a Gerusalemme a Padova; o è la stessa efficacia fragile e drammatica del braccio del bimbo, sollevato brutalmente nella Strage degli Innocenti; o è la semplicità tesa delle mani della Maddalena nel Noli me tangere, che tanto avevano colpito don Giussani (vedi pagina precedente). Tanti altri elementi profondi portano a identificare il maestro delle Storie di Isacco in Giotto. E Serena Romano ha il merito di proporli con una nettezza di sguardo e una precisione che costituiscono il fascino del suo libro. Quel che resta alla fine è il racconto per dettagli di qualcosa di inauditamente nuovo apparso sulla scena dell’espressività umana in quella fine di secolo. Ed è proprio questo essere “nuovo” che avrebbe permesso poi al Giotto di Padova di aderire con tanta energia e commozione alla novità che duemila anni fa è apparsa sulla scena del mondo.

Chi è padrone del tempo

di Laura Cioni

Perché nella Commedia si condanna chi crede di possedere, misurare e “vendere” una realtà che non appartiene a noi

Nell’infuocato girone in cui sono dannati i violenti contro Dio, Dante incontra bestemmiatori, sodomiti, usurai, colpevoli non di episodi isolati di intemperanza, ma di un atteggiamento voluto e costante di disprezzo verso il Creatore di ogni cosa e verso ciò che permette alla vita umana di svolgersi ordinatamente, la natura e il lavoro. La concezione dantesca è severa, come è severa l’Etica a Nicomaco di Aristotele, secondo i cui criteri è costruita l’architettura della prima cantica.
L’atteggiamento di Dante non è di sdegno nei confronti dei peccatori, in primo luogo Brunetto Latini, uno dei suoi maestri, in seguito di tre eminenti personalità di Firenze. Anzi, emergono in entrambi gli incontri sia la stima per i singoli, sia il dolore comune per le sorti della città.
La risposta dantesca alla domanda dei dannati se la situazione sociale di Firenze si sia mantenuta come ai tempi del loro operato, è tale da togliere ogni illusione, ma nello stesso tempo è piena di rincrescimento: «La gente nova e i subiti guadagni/ orgoglio e dismisura han generata,/ Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni» (Inferno XVI, 73-75).
Quello di Dante non è, come potrebbe sembrare a una prima lettura, l’elogio del buon tempo antico, in cui vigevano nobili costumi, indicati più sopra con l’espressione “valore e cortesia”. È piuttosto la diagnosi dei motivi storici che hanno fatto di Firenze una potenza politica, ma le hanno strappato quella rettitudine interiore che sola può assicurare pace e prosperità alla vita pubblica.
La rapida ascesa economica di gente venuta dal contado e la trasformazione dell’economia da terriera in mercantile, con la disponibilità monetaria che ne consegue, hanno ribaltato l’antica sobrietà nell’arroganza che la ricchezza facilita e nella perdita del senso della misura, cioè dell’equilibrio nell’azione.
Firenze ne piange, e con lei chi l’ama. Chi piange non disprezza e non ha lo sguardo volto al passato. Indica un principio più grande e più umano di quello meramente economico come guida al retto agire. Proprio per questo gli usurai si trovano sul limite estremo dei violenti contro Dio, là dove inizia l’Inferno più nero, in cui è punita la frode, ovvero l’uso scorretto della più alta facoltà umana, la ragione.

Un’offesa alla bontà divina
Già Aristotele aveva biasimato il ricavare denaro dal denaro; in Dante è detto chiaramente «ch’usura offende/ la divina bontade» (Inferno XI, 95-96).
Non soltanto chi presta il proprio denaro ad altissimi interessi, ma tutti coloro che si arricchiscono speculando corrono un rischio: ingannare l’uomo e usare violenza alla natura delle cose, che stabilisce il lavoro come mezzo per assicurare i beni necessari alle esigenze della vita. Ma se la struttura della realtà è data, non posta dall’uomo, trascurarne le leggi offende direttamente Dio.
Una osservazione finale, sulla quale forse non si riflette a sufficienza: il tempo appartiene a Dio,  non all’uomo, benché noi ci illudiamo spesso di possederlo misurandolo. La condanna dell’usura da parte della dottrina della Chiesa ha come ragione anche la componente dell’uso indebito del tempo.

DANTE E SINGLETON

Dante rappresentato da 
Domenico di Michelino.
Dante rappresentato da Domenico di Michelino.

Quando la filologia non basta

di Emmanuele Michela
09/03/2009 - Non solo un'analisi testuale della Divina Commedia. La tesi di Andrea Nembrini, laureatosi in Lettere, ci insegna quale sia la vera missione dello studioso e del lettore. Partendo da un grande dantista americano
Perché sempre meno persone sembrano disposte a lasciarsi affascinare dalla bellezza della Divina Commedia? E perché questo accade - paradossalmente - soprattutto in ambito accademico? Sono queste le domande da cui ha preso vita la tesi di Andrea Nembrini, laureatosi in Lettere moderne a febbraio alla Cattolica di Milano, con un lavoro dal titolo La passione di Dante: Singleton e dintorni.
«Ho deciso di dedicarmi ad uno studio su Dante - spiega Andrea - perché mi sono accorto che nessun altro scrittore ha saputo comunicare tanta bellezza alla mia vita come lui. Purtroppo mi rendo conto di un certo disinteressamento per questo autore: alcuni dicono che sia stato fin troppo studiato». Motivo? «Il dominio di una certa concezione della Filologia che, se da una parte ha saputo offrire una necessaria e scrupolosa analisi letterale, dall’altra ritiene spesso di poter esaurire l’intero significato del poema di Dante nella pura analisi testuale. Ci si è arenati così, specialmente in Italia, su pregevoli precisazioni testuali, dimenticando però il potenziale comunicativo della parola dantesca».
Andrea segnala, invece, come esempio di un corretto studio della Commedia, la figura di Charles Singleton, studioso statunitense scomparso nel ’85, docente ad Harvard e alla Johns Hopkins University: «Non si è limitato alla semplice analisi dell’opera dantesca, ma ha fatto della sua professione una vera conversione personale, necessaria per misurarsi con un testo così distante dalla nostra mentalità». Analizzando alcuni suoi scritti, come La poesia nella Divina Commedia, Saggio sulla Vita Nuova e altri articoli, è evidente quale sia il punto di partenza di Singleton (e con lui di altri critici statunitensi, quali John Freccero, professore della NYU, e Teodolinda Barolini, docente alla Columbia University): il bisogno, del lettore e del critico, di accomodare «gli occhi ad un diverso modo di guardare alla realtà», costantemente desideroso e impaziente di verità, senza fermarsi al semplice esame del testo e delle fonti, ma andando ad indagare l’effettivo “senso complessivo” dell’opera, e ciò che essa può comunicare ad ogni uomo.
«Ho provato così a continuare il lavoro iniziato da Singleton con alcune mie riflessioni, individuando nel continuo dialogo tra l’autore e il lettore il punto sorgivo della letteratura e della sua stessa critica: solo tramite questa chiave, infatti, un testo può rimanere sempre vivo e nuovo». Così l’evento letterario diventa innanzitutto un incontro tra uomini che può portare a intuire, per la simpatia che nasce tra lettore e autore, come il significato di un testo, insieme infinito e preciso, provochi lo svelamento di una verità. Prosegue Andrea: «In questo modo si riesce a cogliere il vero senso di un poema come la Commedia, ed il suo studio, da semplice rilevazione letterale, diventa rivelazione di un significato e riconoscimento di un’esperienza».
La tesi si conclude con una sottolineatura dell’importanza della lettura come “atto di amore”, da porre sempre alla base del lavoro di ogni studioso: impegnarsi col testo in maniera appassionata è l’unica disposizione generativa per una seria critica letteraria, tale da assicurare l’apertura mentale indispensabile alla scoperta della “sua” verità.
In questo modo Singleton e la scuola americana, facendo dialogare tra loro filologia ed ermeneutica, costituiscono esempi da seguire. «Non si può fare a meno di guardare al “senso complessivo” di un’opera letteraria come la Commedia. In ciò ci aiutano studiosi come questi, che ci fanno riscoprire la missione dello studioso e del lettore: non uno studio di parole morte, ma l’incontro con un uomo vivo».

mercoledì 24 marzo 2010

KUROSAWA Quel samurai che si ostina a credere nell'uomo

Venezia, 1951. Al termine della 16ª Mostra internazionale d'arte cinematografica viene assegnato il Leone d’oro per il miglior film a Rashomon, pellicola realizzata dal giapponese Kurosawa Akira. La sorpresa è grande, ma in realtà l’inattesa vittoria non solo rivela una personalità tra le più significative del mondo asiatico, ma soprattutto rende manifesta la totale ignoranza del mondo occidentale nei confronti di una cinematografia estremamente vivace e prolifica, quale era quella giapponese.
Kurosawa nasce nel 1910, discendente da una nobile famiglia di samurai. Il fratello Heigo, di quattro anni più grande, segna profondamente la giovinezza del futuro regista, introducendolo a quelle che diventeranno le passioni determinanti della sua intera vita: letteratura, pittura e soprattutto quel cinematografo presso cui lui stesso svolge la professione di benshi, il narratore-commentatore che in Giappone era solito accompagnare con la voce le proiezioni dei film muti. Con l’avvento del cinema sonoro la professione del benshi decade in brevissimo tempo; per Heigo si tratta di una crisi che lo porta al suicidio a soli 28 anni, lasciando un vuoto incolmabile nel giovane Akira che nel frattempo si stava dedicando alla pittura. Nel 1936 seguendo le orme del defunto fratello, entra nel mondo del cinema diventando assistente dei maggiori registi dell’epoca.
Sette anni di collaborazioni gli permettono di esordire nel 1943 con una pellicola che, almeno sulla carta, sembra adatta a celebrare lo spirito combattivo di un Giappone militarizzato, già alleato della Germania nazista nella Seconda Guerra Mondiale. Sugata Sanshiro, storia dai toni leggendari sulle origini del judo, è in realtà un film denso di valori come solidarietà e amicizia, sentimenti che la commissione di censura non vede di buon occhio; ma il successo di pubblico è tanto clamoroso da spingere la produzione a realizzare un seguito della pellicola.
Seguono Lo spirito più elevato (1944), film questa volta su commissione incentrato sul lavoro di un gruppo di operaie dalla forte dedizione alla patria, quindi Sugata Sanshiro II (1945), e la riduzione di un noto dramma del teatro kabuki, Gli uomini che mettono il piede sulla coda della tigre (1945), prima incursione in quel genere jidaigeki (dramma storico in costume) a cui Kurosawa legherà indissolubilmente la propria fama subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki mettono fine a qualsiasi velleità del Giappone. Kurosawa rivolge fin da subito la sua attenzione al periodo oscuro da cui l’intera nazione è appena uscita e realizza due opere straordinariamente in sintonia con i fermenti dell’allora nascente cinema neorealista italiano: Non rimpiango la mia giovinezza (1946) e Una meravigliosa domenica (1947), raccolgono il grido e l’angoscia di una generazione che ha visto infrangersi i propri sogni ed è costretta a ripartire da zero per costruirsi una vita. Kurosawa si rivela un attento osservatore dell’animo umano e ancora di più lo dimostra nei successivi L’angelo ubriaco (1948) e Cane randagio (1949), nei quali inizia anche il fecondo sodalizio con l’attore Mifune Toshiro. Le due pellicole preannunciano le tematiche che ricorreranno spesso nell’opera del regista: un’attenzione costante alle classi più disagiate, raccontate da una cinepresa che non si ritrae davanti a nulla nella perlustrazione di quei “bassifondi” comuni a molte altre simili vicende, e soprattutto un’incrollabile fiducia nell’uomo, testimonianza del profondo umanesimo che anima l’autore. Il duello silenzioso (1949) e Scandalo (1950) chiudono il primo periodo della carriera del regista, caratterizzato dall’osservazione attenta ed appassionata di un mondo colto nel pieno di un mutamento epocale.
Il nome di Kurosawa Akira esplode a Venezia grazie a Rashomon (1950): a partire da un racconto di Akutagawa Ryunosuke, il regista realizza un film moderno, dove la storia di un samurai ucciso nel bosco viene raccontata da quattro differenti punti di vista, nessuno dei quali è forse attendibile. L’uomo mente per il proprio tornaconto, ma resta sempre aperta la possibilità di un riscatto come testimonia il finale, tutt’altro che consolatorio, dove Kurosawa rivela la sua visione del mondo attraverso quella che è una vera e propria «professione di fede di un umanista non poco scettico che si ostina a credere nella solidarietà umana nonostante tutto» (Tassone).
La fama di maestro del cinema si consolida poi grazie a una serie di pellicole appartenenti al genere jidaigeki, oggi considerate unanimemente tra i classici dell’intera storia del cinema. I sette samurai (1954), enorme e animato affresco di più di tre ore ambientato durante le guerre civili del XVI secolo; Il trono di sangue (1957) riduzione in chiave di teatro No del Macbeth di Shakespeare; I bassifondi (1957), tratto da un’opera dello scrittore russo Maksim Gorkij (L’albergo dei poveri), in cui Kurosawa dimostra di saper amministrare un’ampia varietà di registri narrativi oltre a una sceneggiatura fitta di personaggi osservati con simpatia e autentica adesione. Una ulteriore conferma delle doti di eccellente narratore arriva poi da un gruppo di pellicole improntate alla pura azione: La fortezza nascosta (1958), La sfida del samurai (1961) e il suo sequel, Sanjiuro (1962), diventano subito punti di riferimento del cinema d’avventura tanto da essere citate, quando non copiate, dai registi di tutto il mondo. Il famosissimo Per un pugno di dollari (1964) di Sergio Leone non è altro che una versione in chiave western de La sfida del samurai, cosa che i giapponesi non gradirono molto, tanto da fare causa per plagio alla produzione italiana.
Narratore epico, ma anche attento osservatore della società, il regista non trascura il genere gendaigeki, il dramma di ambientazione contemporanea: L’idiota (1951), tratto dall’amato Dostoevskij, Vivere (1952), Testimonianza di un essere vivente (1955), osservano con attenzione il Giappone post-bellico lacerato tra tradizione millenaria e modernizzazione incalzante.
I film successivi prendono invece atto di questo ormai irreversibile cambiamento: I cattivi dormono in pace (1960) e Anatomia di un rapimento (1963), scavano nel male e nella corruzione di un corpo sociale che ha perso se stesso nel nome del profitto e del proprio tornaconto, attraverso una messa in scena estremamente realistica e allucinata, che ben rende l’idea di un mondo diviso tra il paradiso di una classe agiata e l’inferno di chi è lasciato da solo a vivere una vita ai limiti della decenza.
Nel 1965 con Barbarossa, Kurosawa torna alle dimensioni del grande affresco, indubbiamente perfetto, sia nella struttura che nella ricostruzione storica; ma la critica gli rimprovera di aver pianificato troppo questo “nuovo capolavoro” a scapito della freschezza dei film precedenti.
Per Kurosawa inizia un periodo di crisi. Dapprima, l’esclusione dal progetto nippo-americano Tora! Tora! Tora!, segnato da incomprensioni tra il produttore americano Darryl Zanuck e il regista giapponese, il cui metodo di lavoro ha ben poco a che fare con le logiche produttive delle majors statunitensi, e quindi il fallimento del suo primo film a colori Dodès’ka-dèn (1970), lo conducono ad una tanto insospettata quanto profonda crisi personale. Nel 1971, a seguito di una forte depressione, Kurosawa tenta il suicidio; si salva, ma la sua carriera sembra essere giunta irrimediabilmente a un vicolo cieco.
Eppure l’apparizione sugli schermi di Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure nel 1975, prodotto grazie ai capitali messi a disposizione dall’Unione Sovietica, restituisce un Kurosawa nuovamente appassionato alla vita, padrone del suo consueto sguardo poetico, ora con in più una profonda serenità.
Nonostante la recuperata forma, nella generale crisi dell’industria cinematografica giapponese, è difficile anche per Kurosawa trovare finanziamenti per nuovi progetti. Grazie all’apporto di Francis Ford Coppola e George Lucas nel 1980 riesce a realizzare Kagemusha - L’ombra del guerriero che, assieme al successivo Ran (1985), coproduzione franco-nipponica ispirata al Re Lear di Shakespeare, rappresentano il vertice del regista nel campo dei jidaigeki, sia dal punto di vista pittorico che narrativo. Mai nella storia del cinema il caos del Giappone feudale era stato rappresentato con tanta forza visionaria come in questi due film che rappresentano senza dubbio uno dei rari eventi cinematografici degli anni ’80.
Kurosawa realizza altre tre pellicole prima di spegnersi il 6 settembre 1998: Sogni (1990), Rapsodia in agosto (1991) e Madadayo - Il compleanno (1993). A queste vanno aggiunti due film “postumi”, dai toni più sereni, realizzati dai suoi collaboratori sulla base di sceneggiature già completate dallo stesso regista: Ame agaru (Koizumi Takashi, 1999 – lett. Dopo la pioggia, inedito in Italia) e Il mare e l’amore (Kumai Kei, 2002).

domenica 21 marzo 2010

Avatar: un giudizio critico

una LETTERA a Tracce

Avatar, mio figlio e il gusto di un giudizio


01/02/2010 - Un padre di famiglia viene trascinato a vedere il film di James Cameron. E ne esce deluso: «Manca uno sguardo umano». Ma scopre che, anche in quella situazione, si può costruire qualcosa...
Cari amici,
scrivo per raccontarvi quello che mi è capitato domenica scorsa andando a vedere, con uno dei miei cinque figli e altri tre suoi amici di 11 anni, il film Avatar, che pare sia già diventato il film più visto della storia del cinema.
Probabilmente il fatto di aver ceduto all’insistenza di mio figlio rinunciando a un tranquillo pomeriggio di pennichella, letture e goal di serie A, per un film della durata di quasi tre ore visto su schermo panoramico in seconda fila per mancanza di altri posti, non mi aveva messo nella miglior disposizione per apprezzarlo. Ma, al di là dell’ottimo confezionamento, degli effetti speciali e della spettacolarità - che peraltro riesuma elementi presenti in altri celeberrimi film come Apocalipse Now, Terminator, Jurassic Park... -, il messaggio di fondo del film mi è apparso abbastanza inequivocabile: una profonda e inappellabile disistima per l’uomo in quanto tale, per la sua storia e civiltà, per quello che egli può costruire. E, d’altro canto, un’esaltazione dell’energia della natura in senso panteistico, che alla fine ha il sopravvento con una brutta copia in salsa bio della resurrezione, del primitivismo innocente archi-e-frecce in simbiosi con l’ambiente. Insomma, dell’utopia eco-etico-moralista che, appunto, non ha luogo sulla terra ma può esistere solo sul pianeta Pandora. E trova come unica alleata tra gli uomini la tecno-scienza, impersonata dalla burbera Sigourney Weaver, che difende i nativi per poterli studiare sotto il profilo scientifico: gli altri uomini sono solo affaristi, idioti e violenti, con una prevedibilità noiosa e mortale dei loro comportamenti. Uno sguardo umano tra gli umani, che si usano a vicenda per i rispettivi scopi, è impossibile. L’unico amore possibile è quello tra la figlia del capo tribù dei nativi e il protagonista, ex marine costretto sulla sedia a rotelle, ma sotto le mentite e atletiche spoglie del proprio avatar, surrogato virtuale dell’uomo e dell’alieno costruito in laboratorio, che vive, significativamente, quando l’uomo dorme. Ma quale “amore”? Un amore che non porta alla realizzazione di sé e della propria natura, ma anzi alla scelta del protagonista (uomo) di diventare definitivamente alieno, rinunciando alla sua natura e storia umana: del resto, come dice il protagonista al proprio fidato computer, perché mai gli alieni dovrebbero essere interessati agli uomini? Per «la birra light e i blue jeans», evidentemente gli unici valori rispettabili della nostra cultura (alla faccia di Dante, Leopardi, Mozart...)?
È davvero interessante vedere questo film per capire a quali conseguenze, in realtà a quale utopico “nulla”, porta la mentalità dominante così lucidamente rappresentata e sposata dagli autori e in cui siamo immersi ogni giorno: avendo abolito la possibilità del rapporto umano con Dio, si finisce per abolire l’uomo stesso, come aveva profetizzato Clive Staples Lewis oltre 50 anni fa.
Ma il fatto più interessante è ciò che è successo immediatamente alla fine del film. I quattro ragazzi che erano con me si scambiavano entusiasti le impressioni (l’ultima mezz’ora del film è tutta una spettacolare battaglia): «Io voglio avere un avatar», diceva uno; e un altro per superarlo: «Io voglio essere un avatar». Io li guardavo sconfortato e un po’ triste, sperando di aver modo, senza fare un pesante “pistolotto”, di comunicare in modo efficace il mio giudizio. In quel momento mio figlio si stacca dalla combriccola degli amici e, vedendomi pensieroso, mi chiede: «Papà, papà, ti è piaciuto?». Ero felice che me lo chiedesse, che non fossi per lui semplicemente il papà-autista, possibilmente muto e accondiscendente, necessario per raggiungere il cinema... Gli rispondo secco: «No». «Come no?», mi dice lui, di fatto richiamando l’attenzione anche degli altri amici. Allora vado all’attacco: «Scusa Simone, belli gli effetti speciali, ma ti sei accorto che non c’è un uomo nel film che esprima una positività e una bellezza del vivere da uomo, tanto che alla fine il protagonista decide di diventare un alieno? Nella tua esperienza, le persone che conosci sono proprio tutte così negative?». Attimo di silenzio e poi lui: «No, non sono così». «Se la vita fosse tutta così non ci sarebbe speranza per nessuno», riprendo io. Ancora silenzio: «È vero papà, hai ragione». Parte poi una discussione serrata con tutti i ragazzi, in auto e davanti a una pizza, richiamando diversi episodi del film e sollecitando un giudizio da parte loro. Uno di loro, mi ha raccontato poi il padre, arrivato a casa, alla richiesta di come era stato il film, ha risposto: «Bruttissimo!».
Be’, al di là dell’esito, sicuramente non definitivo, della piccola battaglia nella lotta con ciò che pensa “il mondo”, ho proprio provato un certo gusto. Un gusto a non lasciarsi schiacciare dalla circostanza con tutti i suoi falsi effetti speciali, ma a rischiare un giudizio e ad accompagnare chi ti è vicino a un proprio giudizio, senza mettere i figli sotto una campana di vetro che si sgretolerebbe in un attimo sotto i colpi fascinosi e subdoli della cultura al potere. Un giudizio che nasce dall’esperienza di appartenere a un luogo reale - non a un’utopia emotivamente affascinante -, che c’è in forza di un Padre che non ci ha giudicati per il nostro niente. Ma, attraverso la carne non virtuale di Suo figlio, ci ha amato e ci ama come figli.
Alberto, Seregno

giovedì 18 marzo 2010

rileggendo la Divina Commedia - 2 natura e grazia all'inizio del poema

Virgilio, com'è noto, è visto come simbolo della ragione (naturale) e dell'ordine naturale, distinto dalla grazia, rappresentata da Beatrice.
Forse si può trovare una eccessiva autonomia dell'ordine naturale in Dante (la figura del Veltro, come altri successivi riferimenti a un forte cambiamento, o a una vera palingenisei di orgine politica, dunque naturale, depongono in tal senso). Tuttavia è chiaro che la natura non è indipendente dalla grazia:lo si vede nel riferimento a Beatrice-Lucia-Maria che Virgilio fa nel secondo canto dell'Inferno: la sua iniziativa non è se non il frutto di una iniziativa da tale altezza (soprannaturale). Il totale dispiegamento della razionalità è reso possibile da un previo avvenimento di grazia.

rileggendo la Divina Commedia - 1

Dante incontra Virgilio e poi si inoltra nel regno dell'Oltretomba non fuggendo-oltre il concreto, ma dentro di esso. Esiste infatti una continuità tra l'esperienza terrestre di Dante e la sua esperienza dell'al-di-là.
Mi sembra molto giusta questa scelta di Dante: al-di-là è la verità dell'al-di-qua, non un mondo parallelo, qualcosa insomma di totalmente altro.