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mercoledì 24 marzo 2010

KUROSAWA Quel samurai che si ostina a credere nell'uomo

Venezia, 1951. Al termine della 16ª Mostra internazionale d'arte cinematografica viene assegnato il Leone d’oro per il miglior film a Rashomon, pellicola realizzata dal giapponese Kurosawa Akira. La sorpresa è grande, ma in realtà l’inattesa vittoria non solo rivela una personalità tra le più significative del mondo asiatico, ma soprattutto rende manifesta la totale ignoranza del mondo occidentale nei confronti di una cinematografia estremamente vivace e prolifica, quale era quella giapponese.
Kurosawa nasce nel 1910, discendente da una nobile famiglia di samurai. Il fratello Heigo, di quattro anni più grande, segna profondamente la giovinezza del futuro regista, introducendolo a quelle che diventeranno le passioni determinanti della sua intera vita: letteratura, pittura e soprattutto quel cinematografo presso cui lui stesso svolge la professione di benshi, il narratore-commentatore che in Giappone era solito accompagnare con la voce le proiezioni dei film muti. Con l’avvento del cinema sonoro la professione del benshi decade in brevissimo tempo; per Heigo si tratta di una crisi che lo porta al suicidio a soli 28 anni, lasciando un vuoto incolmabile nel giovane Akira che nel frattempo si stava dedicando alla pittura. Nel 1936 seguendo le orme del defunto fratello, entra nel mondo del cinema diventando assistente dei maggiori registi dell’epoca.
Sette anni di collaborazioni gli permettono di esordire nel 1943 con una pellicola che, almeno sulla carta, sembra adatta a celebrare lo spirito combattivo di un Giappone militarizzato, già alleato della Germania nazista nella Seconda Guerra Mondiale. Sugata Sanshiro, storia dai toni leggendari sulle origini del judo, è in realtà un film denso di valori come solidarietà e amicizia, sentimenti che la commissione di censura non vede di buon occhio; ma il successo di pubblico è tanto clamoroso da spingere la produzione a realizzare un seguito della pellicola.
Seguono Lo spirito più elevato (1944), film questa volta su commissione incentrato sul lavoro di un gruppo di operaie dalla forte dedizione alla patria, quindi Sugata Sanshiro II (1945), e la riduzione di un noto dramma del teatro kabuki, Gli uomini che mettono il piede sulla coda della tigre (1945), prima incursione in quel genere jidaigeki (dramma storico in costume) a cui Kurosawa legherà indissolubilmente la propria fama subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki mettono fine a qualsiasi velleità del Giappone. Kurosawa rivolge fin da subito la sua attenzione al periodo oscuro da cui l’intera nazione è appena uscita e realizza due opere straordinariamente in sintonia con i fermenti dell’allora nascente cinema neorealista italiano: Non rimpiango la mia giovinezza (1946) e Una meravigliosa domenica (1947), raccolgono il grido e l’angoscia di una generazione che ha visto infrangersi i propri sogni ed è costretta a ripartire da zero per costruirsi una vita. Kurosawa si rivela un attento osservatore dell’animo umano e ancora di più lo dimostra nei successivi L’angelo ubriaco (1948) e Cane randagio (1949), nei quali inizia anche il fecondo sodalizio con l’attore Mifune Toshiro. Le due pellicole preannunciano le tematiche che ricorreranno spesso nell’opera del regista: un’attenzione costante alle classi più disagiate, raccontate da una cinepresa che non si ritrae davanti a nulla nella perlustrazione di quei “bassifondi” comuni a molte altre simili vicende, e soprattutto un’incrollabile fiducia nell’uomo, testimonianza del profondo umanesimo che anima l’autore. Il duello silenzioso (1949) e Scandalo (1950) chiudono il primo periodo della carriera del regista, caratterizzato dall’osservazione attenta ed appassionata di un mondo colto nel pieno di un mutamento epocale.
Il nome di Kurosawa Akira esplode a Venezia grazie a Rashomon (1950): a partire da un racconto di Akutagawa Ryunosuke, il regista realizza un film moderno, dove la storia di un samurai ucciso nel bosco viene raccontata da quattro differenti punti di vista, nessuno dei quali è forse attendibile. L’uomo mente per il proprio tornaconto, ma resta sempre aperta la possibilità di un riscatto come testimonia il finale, tutt’altro che consolatorio, dove Kurosawa rivela la sua visione del mondo attraverso quella che è una vera e propria «professione di fede di un umanista non poco scettico che si ostina a credere nella solidarietà umana nonostante tutto» (Tassone).
La fama di maestro del cinema si consolida poi grazie a una serie di pellicole appartenenti al genere jidaigeki, oggi considerate unanimemente tra i classici dell’intera storia del cinema. I sette samurai (1954), enorme e animato affresco di più di tre ore ambientato durante le guerre civili del XVI secolo; Il trono di sangue (1957) riduzione in chiave di teatro No del Macbeth di Shakespeare; I bassifondi (1957), tratto da un’opera dello scrittore russo Maksim Gorkij (L’albergo dei poveri), in cui Kurosawa dimostra di saper amministrare un’ampia varietà di registri narrativi oltre a una sceneggiatura fitta di personaggi osservati con simpatia e autentica adesione. Una ulteriore conferma delle doti di eccellente narratore arriva poi da un gruppo di pellicole improntate alla pura azione: La fortezza nascosta (1958), La sfida del samurai (1961) e il suo sequel, Sanjiuro (1962), diventano subito punti di riferimento del cinema d’avventura tanto da essere citate, quando non copiate, dai registi di tutto il mondo. Il famosissimo Per un pugno di dollari (1964) di Sergio Leone non è altro che una versione in chiave western de La sfida del samurai, cosa che i giapponesi non gradirono molto, tanto da fare causa per plagio alla produzione italiana.
Narratore epico, ma anche attento osservatore della società, il regista non trascura il genere gendaigeki, il dramma di ambientazione contemporanea: L’idiota (1951), tratto dall’amato Dostoevskij, Vivere (1952), Testimonianza di un essere vivente (1955), osservano con attenzione il Giappone post-bellico lacerato tra tradizione millenaria e modernizzazione incalzante.
I film successivi prendono invece atto di questo ormai irreversibile cambiamento: I cattivi dormono in pace (1960) e Anatomia di un rapimento (1963), scavano nel male e nella corruzione di un corpo sociale che ha perso se stesso nel nome del profitto e del proprio tornaconto, attraverso una messa in scena estremamente realistica e allucinata, che ben rende l’idea di un mondo diviso tra il paradiso di una classe agiata e l’inferno di chi è lasciato da solo a vivere una vita ai limiti della decenza.
Nel 1965 con Barbarossa, Kurosawa torna alle dimensioni del grande affresco, indubbiamente perfetto, sia nella struttura che nella ricostruzione storica; ma la critica gli rimprovera di aver pianificato troppo questo “nuovo capolavoro” a scapito della freschezza dei film precedenti.
Per Kurosawa inizia un periodo di crisi. Dapprima, l’esclusione dal progetto nippo-americano Tora! Tora! Tora!, segnato da incomprensioni tra il produttore americano Darryl Zanuck e il regista giapponese, il cui metodo di lavoro ha ben poco a che fare con le logiche produttive delle majors statunitensi, e quindi il fallimento del suo primo film a colori Dodès’ka-dèn (1970), lo conducono ad una tanto insospettata quanto profonda crisi personale. Nel 1971, a seguito di una forte depressione, Kurosawa tenta il suicidio; si salva, ma la sua carriera sembra essere giunta irrimediabilmente a un vicolo cieco.
Eppure l’apparizione sugli schermi di Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure nel 1975, prodotto grazie ai capitali messi a disposizione dall’Unione Sovietica, restituisce un Kurosawa nuovamente appassionato alla vita, padrone del suo consueto sguardo poetico, ora con in più una profonda serenità.
Nonostante la recuperata forma, nella generale crisi dell’industria cinematografica giapponese, è difficile anche per Kurosawa trovare finanziamenti per nuovi progetti. Grazie all’apporto di Francis Ford Coppola e George Lucas nel 1980 riesce a realizzare Kagemusha - L’ombra del guerriero che, assieme al successivo Ran (1985), coproduzione franco-nipponica ispirata al Re Lear di Shakespeare, rappresentano il vertice del regista nel campo dei jidaigeki, sia dal punto di vista pittorico che narrativo. Mai nella storia del cinema il caos del Giappone feudale era stato rappresentato con tanta forza visionaria come in questi due film che rappresentano senza dubbio uno dei rari eventi cinematografici degli anni ’80.
Kurosawa realizza altre tre pellicole prima di spegnersi il 6 settembre 1998: Sogni (1990), Rapsodia in agosto (1991) e Madadayo - Il compleanno (1993). A queste vanno aggiunti due film “postumi”, dai toni più sereni, realizzati dai suoi collaboratori sulla base di sceneggiature già completate dallo stesso regista: Ame agaru (Koizumi Takashi, 1999 – lett. Dopo la pioggia, inedito in Italia) e Il mare e l’amore (Kumai Kei, 2002).

domenica 21 marzo 2010

Avatar: un giudizio critico

una LETTERA a Tracce

Avatar, mio figlio e il gusto di un giudizio


01/02/2010 - Un padre di famiglia viene trascinato a vedere il film di James Cameron. E ne esce deluso: «Manca uno sguardo umano». Ma scopre che, anche in quella situazione, si può costruire qualcosa...
Cari amici,
scrivo per raccontarvi quello che mi è capitato domenica scorsa andando a vedere, con uno dei miei cinque figli e altri tre suoi amici di 11 anni, il film Avatar, che pare sia già diventato il film più visto della storia del cinema.
Probabilmente il fatto di aver ceduto all’insistenza di mio figlio rinunciando a un tranquillo pomeriggio di pennichella, letture e goal di serie A, per un film della durata di quasi tre ore visto su schermo panoramico in seconda fila per mancanza di altri posti, non mi aveva messo nella miglior disposizione per apprezzarlo. Ma, al di là dell’ottimo confezionamento, degli effetti speciali e della spettacolarità - che peraltro riesuma elementi presenti in altri celeberrimi film come Apocalipse Now, Terminator, Jurassic Park... -, il messaggio di fondo del film mi è apparso abbastanza inequivocabile: una profonda e inappellabile disistima per l’uomo in quanto tale, per la sua storia e civiltà, per quello che egli può costruire. E, d’altro canto, un’esaltazione dell’energia della natura in senso panteistico, che alla fine ha il sopravvento con una brutta copia in salsa bio della resurrezione, del primitivismo innocente archi-e-frecce in simbiosi con l’ambiente. Insomma, dell’utopia eco-etico-moralista che, appunto, non ha luogo sulla terra ma può esistere solo sul pianeta Pandora. E trova come unica alleata tra gli uomini la tecno-scienza, impersonata dalla burbera Sigourney Weaver, che difende i nativi per poterli studiare sotto il profilo scientifico: gli altri uomini sono solo affaristi, idioti e violenti, con una prevedibilità noiosa e mortale dei loro comportamenti. Uno sguardo umano tra gli umani, che si usano a vicenda per i rispettivi scopi, è impossibile. L’unico amore possibile è quello tra la figlia del capo tribù dei nativi e il protagonista, ex marine costretto sulla sedia a rotelle, ma sotto le mentite e atletiche spoglie del proprio avatar, surrogato virtuale dell’uomo e dell’alieno costruito in laboratorio, che vive, significativamente, quando l’uomo dorme. Ma quale “amore”? Un amore che non porta alla realizzazione di sé e della propria natura, ma anzi alla scelta del protagonista (uomo) di diventare definitivamente alieno, rinunciando alla sua natura e storia umana: del resto, come dice il protagonista al proprio fidato computer, perché mai gli alieni dovrebbero essere interessati agli uomini? Per «la birra light e i blue jeans», evidentemente gli unici valori rispettabili della nostra cultura (alla faccia di Dante, Leopardi, Mozart...)?
È davvero interessante vedere questo film per capire a quali conseguenze, in realtà a quale utopico “nulla”, porta la mentalità dominante così lucidamente rappresentata e sposata dagli autori e in cui siamo immersi ogni giorno: avendo abolito la possibilità del rapporto umano con Dio, si finisce per abolire l’uomo stesso, come aveva profetizzato Clive Staples Lewis oltre 50 anni fa.
Ma il fatto più interessante è ciò che è successo immediatamente alla fine del film. I quattro ragazzi che erano con me si scambiavano entusiasti le impressioni (l’ultima mezz’ora del film è tutta una spettacolare battaglia): «Io voglio avere un avatar», diceva uno; e un altro per superarlo: «Io voglio essere un avatar». Io li guardavo sconfortato e un po’ triste, sperando di aver modo, senza fare un pesante “pistolotto”, di comunicare in modo efficace il mio giudizio. In quel momento mio figlio si stacca dalla combriccola degli amici e, vedendomi pensieroso, mi chiede: «Papà, papà, ti è piaciuto?». Ero felice che me lo chiedesse, che non fossi per lui semplicemente il papà-autista, possibilmente muto e accondiscendente, necessario per raggiungere il cinema... Gli rispondo secco: «No». «Come no?», mi dice lui, di fatto richiamando l’attenzione anche degli altri amici. Allora vado all’attacco: «Scusa Simone, belli gli effetti speciali, ma ti sei accorto che non c’è un uomo nel film che esprima una positività e una bellezza del vivere da uomo, tanto che alla fine il protagonista decide di diventare un alieno? Nella tua esperienza, le persone che conosci sono proprio tutte così negative?». Attimo di silenzio e poi lui: «No, non sono così». «Se la vita fosse tutta così non ci sarebbe speranza per nessuno», riprendo io. Ancora silenzio: «È vero papà, hai ragione». Parte poi una discussione serrata con tutti i ragazzi, in auto e davanti a una pizza, richiamando diversi episodi del film e sollecitando un giudizio da parte loro. Uno di loro, mi ha raccontato poi il padre, arrivato a casa, alla richiesta di come era stato il film, ha risposto: «Bruttissimo!».
Be’, al di là dell’esito, sicuramente non definitivo, della piccola battaglia nella lotta con ciò che pensa “il mondo”, ho proprio provato un certo gusto. Un gusto a non lasciarsi schiacciare dalla circostanza con tutti i suoi falsi effetti speciali, ma a rischiare un giudizio e ad accompagnare chi ti è vicino a un proprio giudizio, senza mettere i figli sotto una campana di vetro che si sgretolerebbe in un attimo sotto i colpi fascinosi e subdoli della cultura al potere. Un giudizio che nasce dall’esperienza di appartenere a un luogo reale - non a un’utopia emotivamente affascinante -, che c’è in forza di un Padre che non ci ha giudicati per il nostro niente. Ma, attraverso la carne non virtuale di Suo figlio, ci ha amato e ci ama come figli.
Alberto, Seregno

giovedì 18 marzo 2010

rileggendo la Divina Commedia - 2 natura e grazia all'inizio del poema

Virgilio, com'è noto, è visto come simbolo della ragione (naturale) e dell'ordine naturale, distinto dalla grazia, rappresentata da Beatrice.
Forse si può trovare una eccessiva autonomia dell'ordine naturale in Dante (la figura del Veltro, come altri successivi riferimenti a un forte cambiamento, o a una vera palingenisei di orgine politica, dunque naturale, depongono in tal senso). Tuttavia è chiaro che la natura non è indipendente dalla grazia:lo si vede nel riferimento a Beatrice-Lucia-Maria che Virgilio fa nel secondo canto dell'Inferno: la sua iniziativa non è se non il frutto di una iniziativa da tale altezza (soprannaturale). Il totale dispiegamento della razionalità è reso possibile da un previo avvenimento di grazia.

rileggendo la Divina Commedia - 1

Dante incontra Virgilio e poi si inoltra nel regno dell'Oltretomba non fuggendo-oltre il concreto, ma dentro di esso. Esiste infatti una continuità tra l'esperienza terrestre di Dante e la sua esperienza dell'al-di-là.
Mi sembra molto giusta questa scelta di Dante: al-di-là è la verità dell'al-di-qua, non un mondo parallelo, qualcosa insomma di totalmente altro.