lunedì 24 settembre 2012
Michelangelo e la raffigurazione degli angeli
La loro presenza negli affreschi del Buonarroti nella Cappella Sistina
di don Marcello Stanzione
ROMA, giovedì, 20 settembre 2012 (ZENIT.org).- Michelangelo appartiene a un gruppo di artisti rinascimentali di estrazione sociale medio - alta. Discendente da un’antica famiglia fiorentina, molto potente nella seconda metà del Trecento e poi decaduta per difficoltà finanziarie, è dotato di un genio artistico che supera il proprio tempo. Nato nel 1475 a Caprese nella Valtiberina e morto, quasi novantenne, nel 1564 aRoma, nella sua casa presso il foro di Traiano, Michelangelo è un artista perennemente attanagliato da dubbi, oppresso, soprattutto nella maturità, da un’invincibile insoddisfazione per il proprio lavoro.
La sua vita, dibattuta ai principi tra l’adesione ai principi della cultura umanistica e un forte moralismo, appare un esempio insigne di artista “saturnino”, grande e solitario, tormentato e geniale. La sua longevità e la sua versatilità hanno contribuito a collocarlo nell’empireo delle grandi personalità di ogni tempo. Personificazione dell’artista artefice – secondo l’ideale albertiano – poeta e intellettuale, pittore, scultore e architetto, celebrato già dai contemporanei, realizza la definitiva sconfitta dell’arte come Mimes – o imitazione – a favore di un’estetica soggettiva, in cui il motivo della forza creatrice diviene l’idea principale dell’opera. La sofferenza interiore, la sua profonda melanconia, gli è data dalla consapevolezza della distanza inconciliabile tra la storia dell’umanità, che appare maestosa anche nel peccato, e l’imperscrutabile disegno divino.
La Cappella Sistina, nei palazzi vaticani, ospita il capolavoro della pittura di Michelangelo Buonarroti. Quando Papa Giulio II decide di rinnovare la decorazione della cappella (la grandiosa volta, circa 800 metri quadrati, era in precedenza semplicemente tinteggiata di blu con stelle dorate) affida l’incarico a Michelangelo, che dà inizio al suo monumentale lavoro il 10 maggio del 1508. Abbandonando gli schemi decorativi della tradizione a lui precedente, il pittore realizza una composizione architettonica che abbraccia l’intera volta e che si fonde con la narrazione pittorica delle storie del vecchio testamento. Il ciclo iconografico inizia dal fondo della cappella e termina sulla porta d’entrata. L’ordine di esecuzione degli affreschi è, quindi, inverso a quello dello sviluppo cronologico delle storie.
La decorazione si articola su tre piani. Nelle lunette sono rappresentati gli antenati di cristo fino ad Abramo. Nelle vele e nei pennacchi sono disposte le figure dei veggenti, Sibille e Profeti. La parte centrale della volta è divisa in nove pannelli. Dio separa la luce dalle tenebre, Dio crea il Sole e la Luna e le piante della Terra, Dio spartisce le acque e crea i pesci e gli uccelli; La creazione del primo uomo, La creazione di Eva, Il peccato originale e la cacciata dal paradiso terrestre, Il sacrifico di Noé, Il diluvio universale e l’ebbrezza di Noé diverranno studi obbligati per i pittori che soggiornano a Roma e saranno divulgati dagli incisori più famosi.
Profondamente provato dalla fatica della sua titanica impresa, Michelangelo la porta a termine alla vigilia della festa di Ognissanti, il 31 ottobre del 1512. Il papa benedice ufficialmente l’opera alla messa celebrata in onore della Vergine Assunta, cui la cappella è dedicata. Gli affreschi della volta, che costarono al pittore molti anni di studi e di ricerche iconografiche, ebbero certamente una complessa preparazione. Ma la gran mole dei disegni preparatori del ciclo venne distrutta in seguito dall’artista stesso, che odiava mostrare la genesi della sua opera. Questo spiega la rarità di tali testimonianze grafiche, che non arrivano alla dozzina. Un quarto di secolo dopo la commissione della volta, nel 1534 Michelangelo viene incaricato dal papa Clemente VII de’ Medici, poco prima della morte, del a decorazione della parete di fondo della Cappella Sistina. Il nuovo papa, paolo III Farnese, conferma subito la commissione.
Murate le due finestre della parete e abbattuto l’affresco con l’Assunzione del Perugino dietro l’altare, Michelangelo inizia il Giudizio Universale l’8 novembre 1535. Nel pieno degli anni della Riforma e della vasta diffusione del protestantesimo,la Chiesa romana affida al genio pittorico di Michelangelo il compito di redimere le anime dei fedeli. Il Giudizio, è l’espressione del cattolicesimo spiritualizzato, in cui la terribile realtà del dies irae emerge da una grandiosa scienza in movimento, Una folla di personaggi ignudi ruota attorno alla figura centrale del Cristo, che con l’ampio gesto delle braccia esprime dinamismo e potenza. La Vergine, in segno di compassione, volge il viso verso i resuscitati in attesa di giudizio. Sulla parte sinistra dell’affresco il movimento ascensionale dei corpi illustrala Resurrezione; sulla destra è rappresentata la caduta dei dannati, che vengono trasportati da una barca guidata da Caronte verso l’inferno, ispirata dalla Divina Commedia. Nelle due lunette in alto gli angeli mostrano i simboli della passione di cristo; la croce, la corona di spine e la lancia con la spugna imbevuta di aceto. Al centro, verso il basso, un altro gruppo di angeli suona le trombe per destare i morti.
Nella severa ideazione del Giudizio Universale si riflette lo stato d’animo dell’autore, sempre più angosciato, nel periodo di composizione del ciclo di affreschi, per la salvezza della sua anima. Dopo il declino della fiducia umanistica nella libertà dell’uomo, dopo il sacco di Roma e il crollo dell’immunità della città santa, dopo la scissione della Chiesa a opera dei protestanti, Michelangelo esprime nella parete della Cappella Sistina la sua profonda crisi religiosa e morale. L’umanità eroica e vincente, superba nel suo peccato, viene giudicata e condannata per le sue passioni terrene. Il denso aggruppamento dei corpi delle quattrocento figure si sviluppa su un cielo piatto con un drammatico rotatorio delle masse. A differenza delle decorazione della volta, sostenuta dalla pittura di elementi architettonici, nel Giudizio Universale la composizione è strutturata solo mediante i gruppi dei personaggi. Gli angeli apteri per l’importanza dell’opera, per la sua localizzazione e per la committenza, raggiungono l’acme della loro rappresentazione nella Cappella Sistina capolavoro di Michelangelo.
La loro presenza negli affreschi del Buonarroti nella Cappella Sistina
di don Marcello Stanzione
ROMA, venerdì, 21 settembre 2012 (ZENIT.org).- All’apice della parete sulla quale l’artista affresca il Giudizio universale (1535-1541, Città del Vaticano, Palazzi Vaticani, Cappella Sistina) troviamo, nelle due lunette superiori, due gruppi di angeli senza ali recanti i simboli della Passione di Cristo.
In particolare, nella lunetta di sinistra, un gruppo di angeli con movimenti rotatori, articolati e ampi sorregge in volo la croce seguito da una nutrita schiera di creature celesti che, in tal modo, sottolineano la profondità e la prospettiva e, insieme, risultano un complesso e ardito studio di intrecci di anatomie e di drappeggi in volo. Ogni angelo assume una posizione diversa intorno alla croce, mentre, poco lontano, un altro gruppo angelico, attraverso uno scambio di sguardi, si lega al primo e si fa portatore della corona di spine.
Gli angeli, tutti apteri - a suo tempo, singolarità accusata di eresia come molte altre soluzioni adottate da Michelangelo nella decorazione della Cappella Sistina - ritornano nella lunetta di destra, nella quale portano in trionfo la colonna alla quale Cristo è stato legato e flagellato, mentre un angelo dal manto arancione, reca la canna con in cima la spugna imbevuta di aceto con la quale è stato dato da bere a Gesù sulla Croce, in questo modo, Michelangelo, riduce la scelta dei simboli della Passione a soli quattro elementi: croce, corona, colonna, canna. Rispettivamente la croce della lunetta di sinistra è inclinata verso destra, mentre la colonna della lunetta di destra è inclinata verso sinistra: un gioco di corrispondenze simboliche e di bilanciamenti formali che trova la sua simmetria nella figura di Cristo e nella diagonale delle sue braccia. La correlazione e l’interdipendenza tra i gruppi angelici, ben distinti dalle correnti umane dei beati e dei dannati, poi, trova il suo equilibrio negli angeli tubicini posti sotto la figura del Redentore, ispirazione derivante dall’Apocalisse di Giovanni, nella quale si narra che ai sette angeli, ritti dinanzi a Dio, furono date sette trombe e al suono di ognuna corrispose un segno disastroso ed inequivocabile della fine dei tempi. Due angeli sorreggono altrettanti libri: il primo, piccolo, ad annoverarne lo scarso numero, è rivolto verso i beati e la loro ascesa, il secondo, davvero voluminoso, è girato verso i dannati considerati una moltitudine.
Ancora, nella parte destra, angeli apteri alquanto risoluti (insieme a demoni apteri), ricacciano i dannati all’inferno - nel momento in cui questi, non accettando la loro condanna, tentano di risalire al cielo nonostante le caratteristiche dei sette peccati capitali siano in loro evidenti (la borsa dell’avaro, l’inerzia dell’accidioso, il digrigno dell’iracondo, etc.) -, mentre a sinistra aiutano i beati, a volte increduli e titubanti, a salire verso la Grazia, infine, nella Resurrezione dei corpi, angeli e demoni si contendono le anime appena risorte.
A ben vedere non solo il Giudizio universale, ma tutta la volta della Cappella Sistina pullula di angeli apteri: nella Cacciata dal Paradiso l’arcangelo in fluttuanti vesti rosse allontana, severo e impassibile con spada sguainata, i progenitori dall’Eden, mentre il suo volto e la sua posizione fa da pendant a Lucifero che, nel Peccato originale, con le stesse fattezze del viso, ma con busto di donna terminante in coda di serpente (molto probabilmentela Lilith degli apocrifi), dona i frutti proibiti, nella fattispecie fichi, ad Adamo ed Eva.
E ancora, nella Creazione di Adamo, i dodici angeli che accompagnano Dio sono trasportati, come da un turbine, come da un vento divino al quale si abbandonano, col quale sembrano essere in sinergia totale. Tra questi dodici angeli apteri, diversamente interpretati quali i mesi, le tribù d’Israele ed altro, se ne scorge uno di straordinaria bellezza che ha il privilegio di sorreggere Dio in un tenero “abbraccio”. Si è, quindi, ipotizzato che questo angelo prediletto possa essere Maria, scelta dall’inizio dei tempi e preservata dal peccato, in questo caso il bambino che le si attacca alle gambe sarebbe il piccolo Gesù, toccato a sua volta da Dio. Se ne deduce, quindi, che amorevolmente e nel medesimo istante, il Creatore sfiorerebbe, con lo stesso gesto, i suoi due figli: Adamo e Gesù e con il tocco delle dita offrirebbe al primo la vita, nonché già il perdono e la redenzione incarnata nel Bambino. L’angelo-Maria sorregge Dio “fisicamente” come era accaduto nella Pietà vaticana, nel Tondo Doni, ipotizzerei, a tale proposito, una forte valenza del messaggio e del dogma mariano ancor più che cristologico.
Il Concilio tridentino criticò aspramente molte delle novità iconografiche apportate da Michelangelo nella realizzazione della Cappella Sistina che, abbandonando la costruzione prospettica del Quattrocento, inseriva in un cielo lapislazzuli senza riferimenti spazio-temporali, beati e santi nudi e privi di aureole, Cristo imberbe, alternava sibille a profeti e moltiplicava gli angeli apteri. Ma per Michelangelo fondamentale fu sempre l’invenzione, considerata l’elemento trascendentale dell’arte, contrapposto alla manualità insita nella scultura e nella pittura; l’affermazione di non seguire forme e modelli preesistenti, ma comprendere e applicare l’immaginazione, la potenza della creazione “nuova”, agli occhi dell’artista nobilitava e sublimava qualunque forma d’arte. Egli, poi, inneggiò, sempre, alla bellezza e alla perfezione dell’uomo, memore della filosofia platonica, appresa alla corte di Lorenzo il Magnifico, che, creando una gerarchia di esseri che dagli elementi inanimati giungeva alle essenze celesti, poneva l’uomo al grado estremo tra la terra e il cielo.
La riscoperta dell’antico, attraverso l’archeologia che fu prerogativa dell’Umanesimo e poi del Rinascimento, mostrava come, la scultura classica attraverso la resa accurata dell’anatomia, elogiasse la magnificenza del movimento e la solennità stante dell’essere umano, la sua ineguagliabile perfezione. E Michelangelo che molto aveva studiato e apprezzato la scultura degli antichi unì, dunque, l’invenzione alla bellezza, egli stesso fu divino perché non copiò ma creò forme perfette. Il sincretismo di miti pagani e temi cristiani, che animò le discussioni degli uomini di cultura del tempo, fu alla base della ricerca della bellezza in Michelangelo, fu ispirazione dell’invenzione, fu la base di una filosofia che volle vedere agire l’amore universale ed eterno sommando forze della natura e idee ultraterrene. Questi angeli senza ali risultano araldi di tutto questo: elogio dell’invenzione e della bellezza umana, unito all’ammirazione per la classicità, alla preferenza data al sincretismo e ad uno studio degli apocrifi, sono creature immaginate quali riflessi apteri dell’intuizione e della creazione del genio michelangiolesco che, già quarant’anni prima, smaterializzava in piccoli tocchi le ali dell’angelo protagonista della tavola, incompiuta, detta Madonna di Manchester.
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giovedì 30 agosto 2012
"Arte e progresso" a margine di Gombrich
Una riflessione firmata da Rodolfo Papa, docente di Storia delle Teorie estetiche presso l'Urbaniana
di Rodolfo Papa
ROMA, lunedì, 20 agosto 2012 (ZENIT.org).- Abbiamo visto come il mito del progresso sia stato messo in crisi dal disvelamento delle sue implicite ambiguità, e tuttavia abbiamo anche notato come continui a persistere, soprattutto nella storicizzazione delle arti. Alcune notazioni di Gombrich, possono aiutarci nella riflessione sul ruolo del mito del progresso nella storia delle arti[1]. Gombrich, infatti, ha messo in evidenza che il progresso continua ad essere un’idea indispensabile, sebbene sia portatrice di esiti paradossali, infatti chi sostiene il progresso appare antiprogressista e, viceversa, chi lo avversa appare progressista: « Oggi la fede nel progresso è in piena crisi, e noi la stiamo vivendo. Eppure, prescindere dall’idea di progresso per noi non è nemmeno pensabile. È noto in quale misura essa polarizzi ancora le ideologie e i partiti politici. In ciò noi restiamo pur sempre eredi del XIX secolo, che a sua volta risentiva il potente influsso della Rivoluzione francese. Lo schieramento dei partiti rispecchiava e rispecchia tuttora la disposizione dei seggi dell’Assemblea Nazionale negli anni della Rivoluzione. Chi si considerava dalla parte delle irresistibili forze del progresso apparteneva alla sinistra; nella destra rientravano coloro che invitavano alla moderazione e si davano il nome di conservatori, mentre gli avversari li chiamavano reazionari. Noi abbiamo imparato a nostre spese che questo schema semplicistico falsifica e distorce la complessa realtà di non poche situazioni nel campo della stessa politica. Confusione ancor maggiore ha causato l’idea di progresso nella storia della critica d’arte. Nessuno si meraviglierebbe all’udire un appassionato radicale affermare che l’idea stessa di progresso in arte è già di per sé reazionaria»[2].
Dunque l’idea del progresso in storia dell’arte può addirittura apparire come implicitamente reazionaria. L’idea del progresso sembra non funzionare nell’arte; continua ancora Gombrich: «Le opere d’arte – se vogliamo continuare a chiamarle così – non possono venire sistemate in una linea ascendente, perché sono per loro essenza incommensurabili. È quindi solo apparentemente paradossale che un critico d’arte si ritenga tanto più progressivo quanto più nega che in arte possa esistere progresso. Anche nell’odierna storiografia artistica si tende a sorvolare sull’idea di progresso. È un’idea che abbiamo superato, insieme a quella di decadenza. Qualunque universitario al primo anno sa già che Michelangelo non vale più di Giotto, bensì è soltanto diverso. Io sono della stessa opinione, ma mi sembra che valga la pena isolare le diverse concezioni dell’idea di progresso che hanno prodotto una certa confusione nel linguaggio. È evidente che col passar del tempo diversi concetti sono venuti a confondersi, e forse non sarà male tentare di districarli»[3].
Dunque, Gombrich evidenzia come il concetto di progresso applicato alla storia dell’arte abbia causato non pochi equivoci e generato successive confusioni terminologiche. A mio avviso, occorre decisione e cautela nel superamento dell’idea di progresso; infatti, una lettura progressista della storia dell’arte, implicando una visione progressiva delle forme, per cui tutto ciò che segue è evoluzione positiva di ciò che lo precede verso un ideale futuro di perfezione, è falsa perché in realtà non è così che procedono le cose, ma è anche vero che la facile modalità del superamento del progressismo, affermatasi negli anni ’70, ha condotto ad una eccessiva relativizzazione dei valori intrinseci nel confronto tra una esperienza artistica ed un'altra. Lo stesso Gombrich, mentre confuta il concetto di progresso nell’arte, rischia anche di appiattire il discorso ponendo tutto sul medesimo piano interpretativo.
Occorre tenere conto che se è vero che da un punto di vista formale una soluzione artistica sia rispettabile quanto un’altra, nel contempo, da un punto di vista iconologico o addirittura culturale o filosofico, si possono invece porre dei distinguo ed esprimere giudizi di merito sulle opere d’arte. Tra i diversi sistemi artistici è presente una certa “incommensurabilità”, come afferma Gombrich, tuttavia un tipo di sviluppo e progresso all’interno di un “sistema artistico” e di una singola disciplina è non solo ammissibile, ma auspicabile e narrabile. Lo mette in evidenza del resto lo stesso Gombrich, ponendo il parallelo tra il famoso dipinto di Gérôme Frine davanti all’Areopago del 1861 ed il cartone della Predica di san Paolo nell’Areopago di Raffaello. L’opera di Gérôme era stata criticata da Emile Zola perché, a suo avviso, troppo legata all’idea che la pittura debba avere dei fini, e che si dipinga con l’obbiettivo di mostrare bravura nel raggiungerli. Gombrich conclude che per certi versi sia l’uno che l’altro artista applicano il medesimo principio al fine di saper descrivere un determinato evento e renderlo visibile.
È interessantissima la considerazione di confronto che lo stesso Gombrich propone nel suo ragionamento, per comprendere l’idea stessa di progresso interno di una disciplina, infatti egli scrive «anche qui tutti i mezzi dell’arte sono posti a partito per evocare un determinato evento del passato con piena forza drammatica. Però – avrebbe potuto aggiungere con orgoglio Gérôme – nel frattempo noi abbiamo fatto progressi nella conoscenza dell’antichità. I miei costumi e la mia scenografia sono incomparabilmente più autentici di quelli di Raffaello, e forse io sono addirittura superiore a Raffaello nella resa delle espressioni, sulle quali nemmeno Zola ha trovato da ridire»[4]. Dunque può esistere un progresso entro uno stesso sistema artistico; il confronto Raffaello-Gérôme, infatti, è interno ad un sistema figurativo, che aderisce a regole simili e ad una visione del fine della pittura sostanzialmente comune. In altri termini ci troviamo di fronte a due stili personali diversi che aderiscono a due impianti stilistici di epoche storiche diverse, entro un sistema artistico sostanzialmente simile.
Dunque l’idea del progresso applicata alla storia dell’arte crea grandi equivoci, ponendo in successione evolutiva autori assai diversi, oppure usando la cronologia come un indice di qualità. Ma se adoperiamo l’idea di progresso, nei termini vasariani, ovvero come crescita, come percorso interno ad un sistema artistico compiuto, con le medesime regole e con i medesimi fini, allora può diventare la modulazione di un racconto del progresso artistico dei singoli e delle loro scuole. Lo scopo della narrazione di Vasari nella Vite è porre al culmine ascensionale del percorso narrativo i modelli di Leonardo, Raffaello e sopra tutti Michelangelo. Si tratta di una visione evolutiva che pone dei parametri di qualità e li applica entro un campo omogeno.
Vasari non afferma che Michelangelo è superiore a Giotto perché viene dopo, ma perché ha sviluppato parametri di qualità che in Giotto erano meno maturi. Questo appare molto chiaro nel Proemio della terza parte delle Vite, dove Vasari spiega i motivi della superiorità degli autori della seconda maniera rispetto ai precedenti, e, parimenti, l’insufficienza di quelli della seconda rispetto agli artisti della maniera moderna, fino a Michelangelo: «Veramente grande augmento fecero alle arti, nella architettura, pittura e scultura quelli eccellenti maestri che noi abbiamo descritti sin qui, nella seconda parte di queste Vite, aggiungendo alle cose de’ primi regola, ordine, misura, disegno e maniera, se non in tutto perfettamente, tanto almanco vicini al vero, che i terzi di chi noi ragioneremo da qui avanti, poterono mediante quel lume sollevarsi e condursi alla somma perfezione, dove abbiam le cose moderne di maggior pregio e più celebrate»[5]. La visione evolutiva delle arti che Vasari propone, esplicitato il suo giudizio di superiorità delle scuole fiorentine sulle altre scuole regionali, appare dunque legittima. Inoltre, tale visione è anche motivata da un punto di vista causale; secondo Vasari il progresso delle arti è di tipo provvidenziale: Michelangelo è inviato dal “benignissimo Rettor del Cielo”[6].
*
NOTE
[1] Per quanto segue, cfr. R. Papa, Discorsi sull’arte sacra, Cantagalli, Siena 2012, cap. III.
[2] E. Gombrich, Arte e progresso [1971], trad.it., Laterza, Bari 1985, pp. 3-4. Si tratta del testo di una conferenza tenuta da Ernest Gombrich nel 1971 su invito della Mary Duke Biddle Foundation presso laCooper Union for the Advancement of Science and Art di New York, dal titolo Ideas of Progress and their Impact on Art.
[3] Ibid.
[4] Ibid., p. 121.
[5] G. Vasari, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri [1550], Einaudi, Torino 1991, “Proemio della terza parte”, p. 539.
[6] Ibid., p. 880.
di Rodolfo Papa
ROMA, lunedì, 20 agosto 2012 (ZENIT.org).- Abbiamo visto come il mito del progresso sia stato messo in crisi dal disvelamento delle sue implicite ambiguità, e tuttavia abbiamo anche notato come continui a persistere, soprattutto nella storicizzazione delle arti. Alcune notazioni di Gombrich, possono aiutarci nella riflessione sul ruolo del mito del progresso nella storia delle arti[1]. Gombrich, infatti, ha messo in evidenza che il progresso continua ad essere un’idea indispensabile, sebbene sia portatrice di esiti paradossali, infatti chi sostiene il progresso appare antiprogressista e, viceversa, chi lo avversa appare progressista: « Oggi la fede nel progresso è in piena crisi, e noi la stiamo vivendo. Eppure, prescindere dall’idea di progresso per noi non è nemmeno pensabile. È noto in quale misura essa polarizzi ancora le ideologie e i partiti politici. In ciò noi restiamo pur sempre eredi del XIX secolo, che a sua volta risentiva il potente influsso della Rivoluzione francese. Lo schieramento dei partiti rispecchiava e rispecchia tuttora la disposizione dei seggi dell’Assemblea Nazionale negli anni della Rivoluzione. Chi si considerava dalla parte delle irresistibili forze del progresso apparteneva alla sinistra; nella destra rientravano coloro che invitavano alla moderazione e si davano il nome di conservatori, mentre gli avversari li chiamavano reazionari. Noi abbiamo imparato a nostre spese che questo schema semplicistico falsifica e distorce la complessa realtà di non poche situazioni nel campo della stessa politica. Confusione ancor maggiore ha causato l’idea di progresso nella storia della critica d’arte. Nessuno si meraviglierebbe all’udire un appassionato radicale affermare che l’idea stessa di progresso in arte è già di per sé reazionaria»[2].
Dunque l’idea del progresso in storia dell’arte può addirittura apparire come implicitamente reazionaria. L’idea del progresso sembra non funzionare nell’arte; continua ancora Gombrich: «Le opere d’arte – se vogliamo continuare a chiamarle così – non possono venire sistemate in una linea ascendente, perché sono per loro essenza incommensurabili. È quindi solo apparentemente paradossale che un critico d’arte si ritenga tanto più progressivo quanto più nega che in arte possa esistere progresso. Anche nell’odierna storiografia artistica si tende a sorvolare sull’idea di progresso. È un’idea che abbiamo superato, insieme a quella di decadenza. Qualunque universitario al primo anno sa già che Michelangelo non vale più di Giotto, bensì è soltanto diverso. Io sono della stessa opinione, ma mi sembra che valga la pena isolare le diverse concezioni dell’idea di progresso che hanno prodotto una certa confusione nel linguaggio. È evidente che col passar del tempo diversi concetti sono venuti a confondersi, e forse non sarà male tentare di districarli»[3].
Dunque, Gombrich evidenzia come il concetto di progresso applicato alla storia dell’arte abbia causato non pochi equivoci e generato successive confusioni terminologiche. A mio avviso, occorre decisione e cautela nel superamento dell’idea di progresso; infatti, una lettura progressista della storia dell’arte, implicando una visione progressiva delle forme, per cui tutto ciò che segue è evoluzione positiva di ciò che lo precede verso un ideale futuro di perfezione, è falsa perché in realtà non è così che procedono le cose, ma è anche vero che la facile modalità del superamento del progressismo, affermatasi negli anni ’70, ha condotto ad una eccessiva relativizzazione dei valori intrinseci nel confronto tra una esperienza artistica ed un'altra. Lo stesso Gombrich, mentre confuta il concetto di progresso nell’arte, rischia anche di appiattire il discorso ponendo tutto sul medesimo piano interpretativo.
Occorre tenere conto che se è vero che da un punto di vista formale una soluzione artistica sia rispettabile quanto un’altra, nel contempo, da un punto di vista iconologico o addirittura culturale o filosofico, si possono invece porre dei distinguo ed esprimere giudizi di merito sulle opere d’arte. Tra i diversi sistemi artistici è presente una certa “incommensurabilità”, come afferma Gombrich, tuttavia un tipo di sviluppo e progresso all’interno di un “sistema artistico” e di una singola disciplina è non solo ammissibile, ma auspicabile e narrabile. Lo mette in evidenza del resto lo stesso Gombrich, ponendo il parallelo tra il famoso dipinto di Gérôme Frine davanti all’Areopago del 1861 ed il cartone della Predica di san Paolo nell’Areopago di Raffaello. L’opera di Gérôme era stata criticata da Emile Zola perché, a suo avviso, troppo legata all’idea che la pittura debba avere dei fini, e che si dipinga con l’obbiettivo di mostrare bravura nel raggiungerli. Gombrich conclude che per certi versi sia l’uno che l’altro artista applicano il medesimo principio al fine di saper descrivere un determinato evento e renderlo visibile.
È interessantissima la considerazione di confronto che lo stesso Gombrich propone nel suo ragionamento, per comprendere l’idea stessa di progresso interno di una disciplina, infatti egli scrive «anche qui tutti i mezzi dell’arte sono posti a partito per evocare un determinato evento del passato con piena forza drammatica. Però – avrebbe potuto aggiungere con orgoglio Gérôme – nel frattempo noi abbiamo fatto progressi nella conoscenza dell’antichità. I miei costumi e la mia scenografia sono incomparabilmente più autentici di quelli di Raffaello, e forse io sono addirittura superiore a Raffaello nella resa delle espressioni, sulle quali nemmeno Zola ha trovato da ridire»[4]. Dunque può esistere un progresso entro uno stesso sistema artistico; il confronto Raffaello-Gérôme, infatti, è interno ad un sistema figurativo, che aderisce a regole simili e ad una visione del fine della pittura sostanzialmente comune. In altri termini ci troviamo di fronte a due stili personali diversi che aderiscono a due impianti stilistici di epoche storiche diverse, entro un sistema artistico sostanzialmente simile.
Dunque l’idea del progresso applicata alla storia dell’arte crea grandi equivoci, ponendo in successione evolutiva autori assai diversi, oppure usando la cronologia come un indice di qualità. Ma se adoperiamo l’idea di progresso, nei termini vasariani, ovvero come crescita, come percorso interno ad un sistema artistico compiuto, con le medesime regole e con i medesimi fini, allora può diventare la modulazione di un racconto del progresso artistico dei singoli e delle loro scuole. Lo scopo della narrazione di Vasari nella Vite è porre al culmine ascensionale del percorso narrativo i modelli di Leonardo, Raffaello e sopra tutti Michelangelo. Si tratta di una visione evolutiva che pone dei parametri di qualità e li applica entro un campo omogeno.
Vasari non afferma che Michelangelo è superiore a Giotto perché viene dopo, ma perché ha sviluppato parametri di qualità che in Giotto erano meno maturi. Questo appare molto chiaro nel Proemio della terza parte delle Vite, dove Vasari spiega i motivi della superiorità degli autori della seconda maniera rispetto ai precedenti, e, parimenti, l’insufficienza di quelli della seconda rispetto agli artisti della maniera moderna, fino a Michelangelo: «Veramente grande augmento fecero alle arti, nella architettura, pittura e scultura quelli eccellenti maestri che noi abbiamo descritti sin qui, nella seconda parte di queste Vite, aggiungendo alle cose de’ primi regola, ordine, misura, disegno e maniera, se non in tutto perfettamente, tanto almanco vicini al vero, che i terzi di chi noi ragioneremo da qui avanti, poterono mediante quel lume sollevarsi e condursi alla somma perfezione, dove abbiam le cose moderne di maggior pregio e più celebrate»[5]. La visione evolutiva delle arti che Vasari propone, esplicitato il suo giudizio di superiorità delle scuole fiorentine sulle altre scuole regionali, appare dunque legittima. Inoltre, tale visione è anche motivata da un punto di vista causale; secondo Vasari il progresso delle arti è di tipo provvidenziale: Michelangelo è inviato dal “benignissimo Rettor del Cielo”[6].
*
NOTE
[1] Per quanto segue, cfr. R. Papa, Discorsi sull’arte sacra, Cantagalli, Siena 2012, cap. III.
[2] E. Gombrich, Arte e progresso [1971], trad.it., Laterza, Bari 1985, pp. 3-4. Si tratta del testo di una conferenza tenuta da Ernest Gombrich nel 1971 su invito della Mary Duke Biddle Foundation presso laCooper Union for the Advancement of Science and Art di New York, dal titolo Ideas of Progress and their Impact on Art.
[3] Ibid.
[4] Ibid., p. 121.
[5] G. Vasari, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri [1550], Einaudi, Torino 1991, “Proemio della terza parte”, p. 539.
[6] Ibid., p. 880.
mercoledì 22 agosto 2012
La modernità de "I Fratelli Karamazov" di Dostoevskij
La prima edizione della BUR Grandi Classici (Rizzoli) pubblicata a maggio e curata dallo psichiatra e scrittore Vittorino Andreoli
di Antonio D’Angiò
ROMA, sabato, 18 agosto 2012 (ZENIT.org) - A poche ore dalla inaugurazione della mostra “E’ Cristo che vive in te. Dostoevskij. L’immagine del mondo e dell’uomo- L’icona e il quadro” (1) nell’ambito dell’annuale appuntamento del Meeting dell’Amicizia di Rimini, ed a distanza di pochi giorni dalla conclusione dell’esposizione che si è tenuta a Roma intitolata “Il viaggio in Italia di F.M. Dostoevskij” (2)vi è da segnalare un’altra iniziativa del mondo culturale italiano che vede al centro lo scrittore russo: è la prima edizione della BUR Grandi Classici (Rizzoli) de “I Fratelli Karamazov” pubblicata a maggio (euro 14,90) la cui introduzione è curata da Vittorino Andreoli.
Nel gennaio del 1879 (quando Dostoevskij aveva cinquantotto anni, quindi due prima della morte avvenuta il 28 febbraio 1881), il giornale “Messaggero Russo” inizia a pubblicare “I Fratelli Karamazov”, pubblicazione che vedrà la sua conclusione nel novembre del 1880.
Vittorino Andreoli, psichiatra e scrittore italiano (www.andreoli.rcslibri.it), mette nelle prime righe dell’introduzione subito in risalto la modernità dell’opera: “I Fratelli Karamazov è un romanzo del tempo presente. E’ veramente sorprendente, leggendolo con la sensibilità dei nostri giorni, ritrovarvi i grandi temi della vita attuale e le questioni che si pongono all’interno della famiglia, fino a fare di questa uno dei motivi della crisi della società moderna.”
I quattro fratelli Karamazov (Dmitrij, Alesa, Ivan, Smerdiakov), tutti con il medesimo padre (Fedor) ma con tre madri differenti (le quali moriranno tutte precocemente), vivono per anni in luoghi separati, affidati a protettori e con la totale assenza del padre cui si ricongiungeranno solo quando avranno un’età compresa tra i venti e i trenta anni circa.
Scrive Andreoli: “E’ la storia di una famigliola (…), affermandosi una delle caratteristiche dell’Autore di concentrare l’attenzione sulla cultura del popolo e quindi in un mondo che non fa storia”.
E’ prima la storia di un “padre” avido, lussurioso, ubriacone e poi di un parricidio. Un omicidio il cui processo è messo all’attenzione della pubblica opinione, e nel quale sarà condannato il figlio Dmitrij, anche se il vero colpevole è l’altro figlio Smerdijakov. “Una giustizia che non riesce a fare giustizia” come dice Andreoli.
Vittorino Andreoli nell’introduzione, circa 26 pagine, riporta interi brani dell’opera per meglio esplicitare i passaggi essenziali. Passaggi che incrociano, oltre i temi della famiglia e dell’educazione dei figli anche quelli della giustizia; il rapporto tra il bene e il male, tra disperazione e pentimento; e poi ancora quelli della libertà e della fede; o ancora sul significato della presenza di Dio nel mondo.
Nel libro quinto della seconda parte, intitolato “Il pro e il contro”, si trovano alcuni capitoli che affrontano questi temi cardine della vita; come ne “La ribellione” con il dialogo sul bene e il male oppure ne “Il Grande Inquisitore” sulla libertà e la fede. Come ci ricorda Andreoli “grande scrittore non è chi ha scritto tutte le pagine in maniera eccelsa, ma uno che tra tante pagine ne ha composte alcune, e solo alcune, di grande efficacia e di una forza che le stacca dal tempo in cui sono state scritte per ergersi al di là del tempo mantenendo l’attualità”.
Nel romanzo “I Fratelli Karamazov” Andreoli segnala anche alcuni limiti di Dostoevskij, come quello dell’incapacità di raccontare le donne e i loro sentimenti o di immaginare l’amore e la delicatezza dei sentimenti; dove l’amore sembra ridursi solo a violenza, a conferma di essere scrittore del mondo popolare e disgraziato.
Andreoli, nel chiudere la sua introduzione, e nel ricordare al lettore che “I Fratelli Karamazov” è uno di quei romanzi che periodicamente vanno ripresi, rammenta che è comunque una opera incompiuta in quanto ignoti restano i destini di Dmitrij, Alesa, Ivan perché “come la vita, ha sempre dei risvolti e dei destini di cui non è dato sapere”.
Anche se, per riprenderlo, possono essere utilizzate anche altre forme artistiche, come acquisendo da RAI FICTION lo sceneggiato del 1969 diretto da Sandro Bolchi, oppure assistendo alla rappresentazione teatrale che si terrà dal 7 novembre al 9 dicembre 2012 al Piccolo Eliseo di Roma nella quale Umberto Orsini porterà sulle scene “La Leggenda del Grande Inquisitore”.
***
(1) La mostra è curata dalla Professoressa Tat’jana Kasaktina, direttore del dipartimento di Teoria della Letteratura presso L’Istituto della Letteratura Mondiale dell’Accademia delle Scienze Russa, con alcuni docenti e studenti di varie università russe e italiane.
(2) La mostra, patrocinata da Roma Capitale e dall’Ambasciata della Federazione Russa, è stata organizzata dalle edizioni il Cigno e curata da Galina Vedernikova (direttrice del Moscow City Museum) e Olga Strada, si è tenuta sino al 30 luglio nel Complesso monumentale del Pio Sodalizio dei Piceni in Piazza San Salvatore in Lauro 15.
ROMA, sabato, 18 agosto 2012 (ZENIT.org) - A poche ore dalla inaugurazione della mostra “E’ Cristo che vive in te. Dostoevskij. L’immagine del mondo e dell’uomo- L’icona e il quadro” (1) nell’ambito dell’annuale appuntamento del Meeting dell’Amicizia di Rimini, ed a distanza di pochi giorni dalla conclusione dell’esposizione che si è tenuta a Roma intitolata “Il viaggio in Italia di F.M. Dostoevskij” (2)vi è da segnalare un’altra iniziativa del mondo culturale italiano che vede al centro lo scrittore russo: è la prima edizione della BUR Grandi Classici (Rizzoli) de “I Fratelli Karamazov” pubblicata a maggio (euro 14,90) la cui introduzione è curata da Vittorino Andreoli.
Nel gennaio del 1879 (quando Dostoevskij aveva cinquantotto anni, quindi due prima della morte avvenuta il 28 febbraio 1881), il giornale “Messaggero Russo” inizia a pubblicare “I Fratelli Karamazov”, pubblicazione che vedrà la sua conclusione nel novembre del 1880.
Vittorino Andreoli, psichiatra e scrittore italiano (www.andreoli.rcslibri.it), mette nelle prime righe dell’introduzione subito in risalto la modernità dell’opera: “I Fratelli Karamazov è un romanzo del tempo presente. E’ veramente sorprendente, leggendolo con la sensibilità dei nostri giorni, ritrovarvi i grandi temi della vita attuale e le questioni che si pongono all’interno della famiglia, fino a fare di questa uno dei motivi della crisi della società moderna.”
I quattro fratelli Karamazov (Dmitrij, Alesa, Ivan, Smerdiakov), tutti con il medesimo padre (Fedor) ma con tre madri differenti (le quali moriranno tutte precocemente), vivono per anni in luoghi separati, affidati a protettori e con la totale assenza del padre cui si ricongiungeranno solo quando avranno un’età compresa tra i venti e i trenta anni circa.
Scrive Andreoli: “E’ la storia di una famigliola (…), affermandosi una delle caratteristiche dell’Autore di concentrare l’attenzione sulla cultura del popolo e quindi in un mondo che non fa storia”.
E’ prima la storia di un “padre” avido, lussurioso, ubriacone e poi di un parricidio. Un omicidio il cui processo è messo all’attenzione della pubblica opinione, e nel quale sarà condannato il figlio Dmitrij, anche se il vero colpevole è l’altro figlio Smerdijakov. “Una giustizia che non riesce a fare giustizia” come dice Andreoli.
Vittorino Andreoli nell’introduzione, circa 26 pagine, riporta interi brani dell’opera per meglio esplicitare i passaggi essenziali. Passaggi che incrociano, oltre i temi della famiglia e dell’educazione dei figli anche quelli della giustizia; il rapporto tra il bene e il male, tra disperazione e pentimento; e poi ancora quelli della libertà e della fede; o ancora sul significato della presenza di Dio nel mondo.
Nel libro quinto della seconda parte, intitolato “Il pro e il contro”, si trovano alcuni capitoli che affrontano questi temi cardine della vita; come ne “La ribellione” con il dialogo sul bene e il male oppure ne “Il Grande Inquisitore” sulla libertà e la fede. Come ci ricorda Andreoli “grande scrittore non è chi ha scritto tutte le pagine in maniera eccelsa, ma uno che tra tante pagine ne ha composte alcune, e solo alcune, di grande efficacia e di una forza che le stacca dal tempo in cui sono state scritte per ergersi al di là del tempo mantenendo l’attualità”.
Nel romanzo “I Fratelli Karamazov” Andreoli segnala anche alcuni limiti di Dostoevskij, come quello dell’incapacità di raccontare le donne e i loro sentimenti o di immaginare l’amore e la delicatezza dei sentimenti; dove l’amore sembra ridursi solo a violenza, a conferma di essere scrittore del mondo popolare e disgraziato.
Andreoli, nel chiudere la sua introduzione, e nel ricordare al lettore che “I Fratelli Karamazov” è uno di quei romanzi che periodicamente vanno ripresi, rammenta che è comunque una opera incompiuta in quanto ignoti restano i destini di Dmitrij, Alesa, Ivan perché “come la vita, ha sempre dei risvolti e dei destini di cui non è dato sapere”.
Anche se, per riprenderlo, possono essere utilizzate anche altre forme artistiche, come acquisendo da RAI FICTION lo sceneggiato del 1969 diretto da Sandro Bolchi, oppure assistendo alla rappresentazione teatrale che si terrà dal 7 novembre al 9 dicembre 2012 al Piccolo Eliseo di Roma nella quale Umberto Orsini porterà sulle scene “La Leggenda del Grande Inquisitore”.
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(1) La mostra è curata dalla Professoressa Tat’jana Kasaktina, direttore del dipartimento di Teoria della Letteratura presso L’Istituto della Letteratura Mondiale dell’Accademia delle Scienze Russa, con alcuni docenti e studenti di varie università russe e italiane.
(2) La mostra, patrocinata da Roma Capitale e dall’Ambasciata della Federazione Russa, è stata organizzata dalle edizioni il Cigno e curata da Galina Vedernikova (direttrice del Moscow City Museum) e Olga Strada, si è tenuta sino al 30 luglio nel Complesso monumentale del Pio Sodalizio dei Piceni in Piazza San Salvatore in Lauro 15.
martedì 14 agosto 2012
lunedì 13 agosto 2012
sito fuori combattimento
Per motivi non comunicatici il sito carabelta.free.fr è attualmente inservibile. Ci scusiamo coi visitatori. Se l'incidente dovesse protrarsi provvederemo a trasferire il sito su altro server. Grazie della comprensione.
venerdì 6 luglio 2012
martedì 12 giugno 2012
Romanzo di una strage - film
Si tratta di un film fondamentalmente corretto, onesto direi, ma - come dire? - più esteso che profondo. Troppo preoccupato del politically correct, di non compiere passi falsi, senza sostenere davvero una tesi.
Ne esce un commissario Calabresi decisamente scagionato dal sospetto di aver ucciso Pinelli, un Pinelli non violento, un Moro saggiamente perplesso a fronte di un Saragat un po' troppo sbilanciato a destra, filoatlantico all'estremo e con venature autoritarie.
Ma chi ha messo la bomba, o le bombe, come suggerisce lo stesso Calabresi nelle scene finali del film, a piazza Fontana? Il film non lo dice: la figura peggiore certo la fanno i neofascisti veneti, Ventura e Freda, sui quali cadono i sospetti più gravi, la quesi certezza della loro colpevolezza. Ma che ruolo ha avuto la NATO e si servizi deviati? Questo è solo insinuato, ma un sospetto è lanciato.
Il film è gradevole, riporta bene al clima convulso di quegli anni, di forte scontro politico. Manca, lo ripetiamo, uno scavo sulle motivazioni, sulle dinamiche profonde che agivano e le loro ragioni. Si ferma un po' alla superficie. La stessa morte di Calabresi non è "raccontata": nell'ultima scenza si assiste alla morte già avvenuta. Ma chi è stato? L'estrema sinistra o i servizi deviati, per impedire che seguisse una pista che ormai si agitava nella sua mente, e che egli aveva confidato a un alto funzionario della polizia (mi pare il prefetto di Roma)?
Un'occasione parzialmente perduta, quindi. Un film comunque da vedere.
Ne esce un commissario Calabresi decisamente scagionato dal sospetto di aver ucciso Pinelli, un Pinelli non violento, un Moro saggiamente perplesso a fronte di un Saragat un po' troppo sbilanciato a destra, filoatlantico all'estremo e con venature autoritarie.
Ma chi ha messo la bomba, o le bombe, come suggerisce lo stesso Calabresi nelle scene finali del film, a piazza Fontana? Il film non lo dice: la figura peggiore certo la fanno i neofascisti veneti, Ventura e Freda, sui quali cadono i sospetti più gravi, la quesi certezza della loro colpevolezza. Ma che ruolo ha avuto la NATO e si servizi deviati? Questo è solo insinuato, ma un sospetto è lanciato.
Il film è gradevole, riporta bene al clima convulso di quegli anni, di forte scontro politico. Manca, lo ripetiamo, uno scavo sulle motivazioni, sulle dinamiche profonde che agivano e le loro ragioni. Si ferma un po' alla superficie. La stessa morte di Calabresi non è "raccontata": nell'ultima scenza si assiste alla morte già avvenuta. Ma chi è stato? L'estrema sinistra o i servizi deviati, per impedire che seguisse una pista che ormai si agitava nella sua mente, e che egli aveva confidato a un alto funzionario della polizia (mi pare il prefetto di Roma)?
Un'occasione parzialmente perduta, quindi. Un film comunque da vedere.
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lunedì 20 febbraio 2012
L'arte come scintilla del divino
La fede cristiana nelle forme dell'arte
di Giuseppe C.M. Cassaro, S.D.B.
Professore di Teologia Dogmatica
e Vice Preside dell’Istituto Teologico S. Tommaso di Messina
ROMA, martedì, 14 febbraio 2012 (ZENIT.org).
Nell’arte è custodita un’allusione al divino e al paradiso: è questa una stupenda intuizione che N.V. Gogol espresse nel suo racconto Il ritratto del 1835, ma è questo anche uno dei tanti comuni e banali asserti che si ripetono, forse per assuefazione accademica o con ironica accondiscendenza. Si dimentica così che l’arte come scintilla del divino è una conquista della visione biblica della realtà: laddove la prospettiva del pensiero antico riconosceva nella bellezza una qualità dell’essere, la rivelazione biblica scopre un gesto personale di Dio creatore, che con gusto artistico dissemina nel cosmo le sue vestigia.
Atanasio, con sguardo estatico, vede nel mondo creato l’impronta della sapienza divina: «Ma se il mondo è stato organizzato con sapienza e conoscenza ed è stato riempito di ogni bellezza [διακεκόσμαται], allora si deve dire che il creatore e l’artista [διακοσμήσαντα] è il Verbo di Dio» (Oratio contra gentes, 40, in: PG, 25, 79-80D). Dio come artista precede ogni artista umano, che con i suoi strumenti aggiunge una pennellata di bellezza a questo mondo splendido, in cui la Sapienza ama trastullarsi accanto ai figli degli uomini (cfr. Sir 24,3-11; Gv 1,3.14).
Un’interessante dibattito si è innescato recentemente a partire da questi argomenti a proposito del nuovo Fonte battesimale, creato dall’Architetto e Designer Alberto Cicerone sotto la guida del Teologo Don Salvatore Vitiello per le celebrazioni nella Cappella Sistina. Ci si chiede infatti se l’arte sia capace non solo di rimandare genericamente al divino, ma possa in verità servire la fede della Chiesa nella sua vita liturgica.
Sembra superfluo ricordare che la produzione artistica si fa segno autentico del divino non per un suo vuoto sforzo di teoresi, ma nella misura in cui essa riesce a parlare di Dio, e in questi termini offre già un servizio ottimo al cammino di fede dell’uomo. Ma c’è da aggiungere che il ministero dell’arte non è affatto una soggezione che ne svilisce l’originalità, né la Chiesa si arroga un’autorità che definisca canoni e modalità espressive: al contrario «la Santa Madre Chiesa è stata sempre amica delle arti liberali ed ha sempre ricercato il loro nobile servizio» (Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 122).
Questa amicizia, che si potrebbe a buon diritto definire alleanza, ha come obiettivo eccellente un servizio a Dio e all’uomo, in una felice circolarità che non sminuisce nessun autentico valore umano, esaltando al contrario tutto ciò che di bello e di buono l’uomo è in grado di produrre, nel solco di quella creatività che tanto lo avvicina al Creatore-artista. Non esiste infatti niente di «genuinamente umano che non trovi eco nel cuore» dei discepoli di Cristo (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 1): così ogni valore artistico di cui l’uomo è capace è di per se stesso una scintilla di vangelo, e per questo motivo appartiene anche all’indole del cristiano.
Il nuovo Fonte Battesimale è espressione artistica del nostro tempo e prodotto di uno sforzo di riflessione sullo spazio legittimo tra arte e liturgia operato nel Master in Architettura, Arti Sacre e Liturgia presso l’Università Europea di Roma e l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.
La forma innovativa non ha un riscontro nell’iconografia storica del fonte cristiano, ma si presenta come un segno gravido di rimandi biblici e liturgici e capace di parlare anche all’uomo di oggi, che in gran parte ha perduto i codici simbolici cristiani, ma sa ancora decriptare un messaggio iconografico che parli il linguaggio dei segni naturali.
La struttura è molto semplice, costituita da tre elementi, che finemente lavorati definiscono una composizione che attrae lo sguardo. La pietra calcarea funge da base alla struttura: essa è solcata da profonde incisioni, le quali tuttavia non richiamano la mano dell’uomo che lavora la roccia, ma l’azione del tempo, che modella le forme naturali in anatomie che parlano di storia eterna.
Nella pietra affonda le radici il bronzo dell’albero che la sovrasta: è un olivo giovane, ma già segnato da un suo percorso di vita che disegna il fusto contorto e slanciato verso l’alto, dove le ricche fronde, sempre verdi e abbondanti esprimono l’esuberanza dell’energia vitale che lo percorre, e dove sono nascosti ventiquattro frutti, che fanno corona alla sfera che si trova nel cuore della chioma. Viene da chiedersi se la rilucente sfera sia adagiata sui rami dell’olivo, oppure sorga proprio da quel tronco attorcigliato: la simbologia solare è tuttavia evidente, e risplende nella luce dell’oro di cui è rifinita. La sfera è cava, e si apre a metà, lasciando scoprire al suo interno l’alveo dell’acqua rigeneratrice del battesimo.
Cristo, sole nascente dall’alto (Lc 1,78; cfr. Liturgia delle Ore, Invocazioni alle Lodi mattutine della II domenica del salterio) siede in trono sull’albero della vita. In lui luce del mondo (Gv 8,12) sono immersi gli uomini per essere illuminati (Ef 5,14) e rinascere dall’alto (Gv 3,3.7), e diventare a loro volta luce (Mt 5,14; Gdc 5,31) in questo mondo immerso nelle tenebre, che attende un raggio di speranza.
Cristo è ad un tempo il volto di Dio e il volto dell’uomo su cui risplende la bellezza e la potenza del sole (Ap 1,16): avvicinarsi a lui, entrare nella fonte che lui apre nel proprio costato, equivale ad entrare nella sua orbita e lasciarsi trasformare dalla sua forza divina in un’umanità nuova, capace di contenere, senza rimanerne schiacciata, tutta la pienezza di Dio (cfr. Es 33,23; Gdc 13,22). Di questo sole è rivestita Maria (Ap 12,1), prima e perfettamente redenta, donna trasformata dalla grazia, madre di tutti i viventi che da quel sole attingono la loro energia vitale; di questo sole si veste anche la Chiesa (Ap 12,1; 22,5), splendente della luce del suo Signore (Preconio pasquale).
Israele, nella vitalità che la misericordia di Dio gli dona, sanandolo dalle sue infedeltà, possiede la bellezza dell’olivo verdeggiante (Os 14,7), e fonda la propria giustizia solo nella fedeltà di Dio alle sue promesse (Sal 52[53],10), nel suo affetto e nel suo cuore paterno che non dimentica l’alleanza di pace.
Questo olivo è il popolo che Dio si è scelto, la radice santa su cui sono innestate tutte le genti per mezzo della fede (Rm 11,11-24), ma solo in virtù della linfa vitale che gli deriva dalla radice vera dell’albero di vita che è Cristo stesso (Ap 22,16; Is 11,10; Gv 15,4-5). Egli è la radice cresciuta in terra arida (Is 53,2), nata sulla roccia senza vita della nostra umanità perduta. In virtù dell’offerta che il Figlio fa di se stesso sulla croce sgorga il fiume vivificante, sulle cui sponde crescono gli alberi sempre verdi e ricchi di frutti (Ez 47,1-12; Ap 22,1-2). Egli è ancora il nuovo albero della vita, che viene restituito ad Adamo dopo la riconciliazione (Ap 2,7; 22,14): nel legno della sua croce rifiorisce la vita che il peccato aveva spento.
Dio stesso è la roccia sicura, difesa e gloria del suo popolo (Dt 32,4; 1Sam 2,2; Sal 18[19],3; 31[32],3; Is 26,4), una roccia viva che genera Israele (Dt 32,18), e che si spacca, si apre per far scaturire acqua di vita (Es 17,6; Ger 2,13; Gv 4,10). I discepoli di Gesù riconoscono che egli era la roccia che nel deserto dissetò Israele (1Cor 10,4), quella roccia spirituale che ancora oggi continua ad aprirsi per donare l’acqua viva dello Spirito, anzi per far sgorgare le sorgenti di quest’acqua nel cuore degli stessi credenti (Gv 7,38), che battezzati in lui, diventano per mezzo di lui tempio dello Spirito di Dio (Ez 36,26).
Cristo è la piccola pietra che solo in apparenza è insignificante (Dn 2,34-35), una pietruzza che “si stacca dall’alto”, senza intervento di mano d’uomo: è Dio stesso che la invia per l’uomo, per poter ricostruire tutto secondo il progetto di Dio (Mt 21,42; At 4,11; Ef 2,20): i costruttori infatti l’hanno scartata, ma Dio vuole che diventi basamento di costruzione per la casa nuova dell’umanità nuova, contro la quale nessun attacco potrà portare distruzione (Mt 7,24-25). In lui anche i discepoli sono resi pietre vive, per la costruzione del tempio santo dove Dio desidera abitare in mezzo agli uomini (1Pt 2,4-5).
Questo breve e sintetico excursus che analizza la simbologia artistica in riferimento a quella biblica mostra come il messaggio sotteso dal linguaggio del Fonte battesimale utilizzato nella Cappella Sistina è duplice: ci parla di Dio e dell’uomo, parte sempre dal creatore per giungere alla creatura umana.
Ci dice come la realtà dell’Incarnazione e della Pasqua di Cristo non sia una semplice rivelazione di qualcosa di misterioso, ma una rivelazione misterica, invita cioè gli uomini a entrare dentro il mistero, a prendere parte da protagonisti alla storia della salvezza. In quel fonte comincia una vita nuova, che non avrà fine, e che segnerà per sempre la comunione tra Dio e l’uomo, in un’alleanza sponsale che nessuna forza potrà mai spezzare. Attraverso quel grembo la creatura umana accede nell’intimità di Dio e diventa come lui, partecipando al suo dono di vita, assumendo in sé il suo essere, e transumanando.
Il fonte trova collocazione nell’ambito delle celebrazioni che si svolgono nella Cappella Sistina, che con la sua sinfonia di affreschi fa da sottofondo alla liturgia celebrata dal Santo Padre. Se non si dà una corrispondenza sincronica o puntuale della triplice simbologia nel contesto iconografico della Cappella, molti rimandi allusivi ci consentono di trovare una sorprendente consonanza che illumina il linguaggio artistico.
Se alcuni particolari della creazione di Eva e del peccato originale, che si trovano nella volta, ci possono mettere sulle tracce dell’albero della vita secondo un’interpretazione tutta michelangiolesca, tuttavia è la simbologia solare che risalta immediatamente, ed anzi è la più evidente per la sua collocazione proprio sopra lo spazio celebrativo dell’altare: Cristo possente, attorno al quale, nel giudizio universale, si muovono tutti gli altri personaggi. È lui il centro della storia, quel sole di giustizia che sorge dall’alto, e che Michelangelo ha rappresentato nella sua aurora definitiva, la luce dorata che lo incornicia alle spalle, e che abbraccia anche Maria seduta alla sua destra.
Ci chiediamo se sia legittima la pretesa di aggiungere una nuova componente artistica in un contesto di così alto valore come la Cappella Sistina. La risposta è ancora una volta banale, ma non per questo meno vera: in momenti diversi della storia ed anche con contributi differenti la Cappella è stata arricchita.
Anche la mano degli artisti del nostro tempo ha diritto a partecipare a questa sinfonia che comprende consonanze e dissonanze di mirabile bellezza: «La Chiesa non ha mai avuto come proprio uno stile artistico, ma, secondo l’indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca, creando, nel corso dei secoli, un tesoro artistico da conservarsi con ogni cura.
Anche l’arte del nostro tempo e di tutti i popoli e paesi abbia nella Chiesa libertà di espressione» (Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 123; cfr. Ordinamento Generale del Messale Romano, 3a ed., 289; Caeremoniale Episcoporum, 37). Nel suo contributo, che per certi versi ha anche il pregio di mantenersi umile, al contesto liturgico e artistico, il fonte parla il linguaggio della fede, quello della bellezza comprensibile e ricca di dignità, e con la sua originalità, concorre alla composizione del momento celebrativo senza sminuire, anzi esaltandola attraverso i riflessi, lo spessore della simbologia tradizionale che gli sta intorno.
Pare proprio che teologia ed arte possano tornare a dialogare.
di Giuseppe C.M. Cassaro, S.D.B.
Professore di Teologia Dogmatica
e Vice Preside dell’Istituto Teologico S. Tommaso di Messina
ROMA, martedì, 14 febbraio 2012 (ZENIT.org).
Nell’arte è custodita un’allusione al divino e al paradiso: è questa una stupenda intuizione che N.V. Gogol espresse nel suo racconto Il ritratto del 1835, ma è questo anche uno dei tanti comuni e banali asserti che si ripetono, forse per assuefazione accademica o con ironica accondiscendenza. Si dimentica così che l’arte come scintilla del divino è una conquista della visione biblica della realtà: laddove la prospettiva del pensiero antico riconosceva nella bellezza una qualità dell’essere, la rivelazione biblica scopre un gesto personale di Dio creatore, che con gusto artistico dissemina nel cosmo le sue vestigia.
Atanasio, con sguardo estatico, vede nel mondo creato l’impronta della sapienza divina: «Ma se il mondo è stato organizzato con sapienza e conoscenza ed è stato riempito di ogni bellezza [διακεκόσμαται], allora si deve dire che il creatore e l’artista [διακοσμήσαντα] è il Verbo di Dio» (Oratio contra gentes, 40, in: PG, 25, 79-80D). Dio come artista precede ogni artista umano, che con i suoi strumenti aggiunge una pennellata di bellezza a questo mondo splendido, in cui la Sapienza ama trastullarsi accanto ai figli degli uomini (cfr. Sir 24,3-11; Gv 1,3.14).
Un’interessante dibattito si è innescato recentemente a partire da questi argomenti a proposito del nuovo Fonte battesimale, creato dall’Architetto e Designer Alberto Cicerone sotto la guida del Teologo Don Salvatore Vitiello per le celebrazioni nella Cappella Sistina. Ci si chiede infatti se l’arte sia capace non solo di rimandare genericamente al divino, ma possa in verità servire la fede della Chiesa nella sua vita liturgica.
Sembra superfluo ricordare che la produzione artistica si fa segno autentico del divino non per un suo vuoto sforzo di teoresi, ma nella misura in cui essa riesce a parlare di Dio, e in questi termini offre già un servizio ottimo al cammino di fede dell’uomo. Ma c’è da aggiungere che il ministero dell’arte non è affatto una soggezione che ne svilisce l’originalità, né la Chiesa si arroga un’autorità che definisca canoni e modalità espressive: al contrario «la Santa Madre Chiesa è stata sempre amica delle arti liberali ed ha sempre ricercato il loro nobile servizio» (Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 122).
Questa amicizia, che si potrebbe a buon diritto definire alleanza, ha come obiettivo eccellente un servizio a Dio e all’uomo, in una felice circolarità che non sminuisce nessun autentico valore umano, esaltando al contrario tutto ciò che di bello e di buono l’uomo è in grado di produrre, nel solco di quella creatività che tanto lo avvicina al Creatore-artista. Non esiste infatti niente di «genuinamente umano che non trovi eco nel cuore» dei discepoli di Cristo (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 1): così ogni valore artistico di cui l’uomo è capace è di per se stesso una scintilla di vangelo, e per questo motivo appartiene anche all’indole del cristiano.
Il nuovo Fonte Battesimale è espressione artistica del nostro tempo e prodotto di uno sforzo di riflessione sullo spazio legittimo tra arte e liturgia operato nel Master in Architettura, Arti Sacre e Liturgia presso l’Università Europea di Roma e l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.
La forma innovativa non ha un riscontro nell’iconografia storica del fonte cristiano, ma si presenta come un segno gravido di rimandi biblici e liturgici e capace di parlare anche all’uomo di oggi, che in gran parte ha perduto i codici simbolici cristiani, ma sa ancora decriptare un messaggio iconografico che parli il linguaggio dei segni naturali.
La struttura è molto semplice, costituita da tre elementi, che finemente lavorati definiscono una composizione che attrae lo sguardo. La pietra calcarea funge da base alla struttura: essa è solcata da profonde incisioni, le quali tuttavia non richiamano la mano dell’uomo che lavora la roccia, ma l’azione del tempo, che modella le forme naturali in anatomie che parlano di storia eterna.
Nella pietra affonda le radici il bronzo dell’albero che la sovrasta: è un olivo giovane, ma già segnato da un suo percorso di vita che disegna il fusto contorto e slanciato verso l’alto, dove le ricche fronde, sempre verdi e abbondanti esprimono l’esuberanza dell’energia vitale che lo percorre, e dove sono nascosti ventiquattro frutti, che fanno corona alla sfera che si trova nel cuore della chioma. Viene da chiedersi se la rilucente sfera sia adagiata sui rami dell’olivo, oppure sorga proprio da quel tronco attorcigliato: la simbologia solare è tuttavia evidente, e risplende nella luce dell’oro di cui è rifinita. La sfera è cava, e si apre a metà, lasciando scoprire al suo interno l’alveo dell’acqua rigeneratrice del battesimo.
Cristo, sole nascente dall’alto (Lc 1,78; cfr. Liturgia delle Ore, Invocazioni alle Lodi mattutine della II domenica del salterio) siede in trono sull’albero della vita. In lui luce del mondo (Gv 8,12) sono immersi gli uomini per essere illuminati (Ef 5,14) e rinascere dall’alto (Gv 3,3.7), e diventare a loro volta luce (Mt 5,14; Gdc 5,31) in questo mondo immerso nelle tenebre, che attende un raggio di speranza.
Cristo è ad un tempo il volto di Dio e il volto dell’uomo su cui risplende la bellezza e la potenza del sole (Ap 1,16): avvicinarsi a lui, entrare nella fonte che lui apre nel proprio costato, equivale ad entrare nella sua orbita e lasciarsi trasformare dalla sua forza divina in un’umanità nuova, capace di contenere, senza rimanerne schiacciata, tutta la pienezza di Dio (cfr. Es 33,23; Gdc 13,22). Di questo sole è rivestita Maria (Ap 12,1), prima e perfettamente redenta, donna trasformata dalla grazia, madre di tutti i viventi che da quel sole attingono la loro energia vitale; di questo sole si veste anche la Chiesa (Ap 12,1; 22,5), splendente della luce del suo Signore (Preconio pasquale).
Israele, nella vitalità che la misericordia di Dio gli dona, sanandolo dalle sue infedeltà, possiede la bellezza dell’olivo verdeggiante (Os 14,7), e fonda la propria giustizia solo nella fedeltà di Dio alle sue promesse (Sal 52[53],10), nel suo affetto e nel suo cuore paterno che non dimentica l’alleanza di pace.
Questo olivo è il popolo che Dio si è scelto, la radice santa su cui sono innestate tutte le genti per mezzo della fede (Rm 11,11-24), ma solo in virtù della linfa vitale che gli deriva dalla radice vera dell’albero di vita che è Cristo stesso (Ap 22,16; Is 11,10; Gv 15,4-5). Egli è la radice cresciuta in terra arida (Is 53,2), nata sulla roccia senza vita della nostra umanità perduta. In virtù dell’offerta che il Figlio fa di se stesso sulla croce sgorga il fiume vivificante, sulle cui sponde crescono gli alberi sempre verdi e ricchi di frutti (Ez 47,1-12; Ap 22,1-2). Egli è ancora il nuovo albero della vita, che viene restituito ad Adamo dopo la riconciliazione (Ap 2,7; 22,14): nel legno della sua croce rifiorisce la vita che il peccato aveva spento.
Dio stesso è la roccia sicura, difesa e gloria del suo popolo (Dt 32,4; 1Sam 2,2; Sal 18[19],3; 31[32],3; Is 26,4), una roccia viva che genera Israele (Dt 32,18), e che si spacca, si apre per far scaturire acqua di vita (Es 17,6; Ger 2,13; Gv 4,10). I discepoli di Gesù riconoscono che egli era la roccia che nel deserto dissetò Israele (1Cor 10,4), quella roccia spirituale che ancora oggi continua ad aprirsi per donare l’acqua viva dello Spirito, anzi per far sgorgare le sorgenti di quest’acqua nel cuore degli stessi credenti (Gv 7,38), che battezzati in lui, diventano per mezzo di lui tempio dello Spirito di Dio (Ez 36,26).
Cristo è la piccola pietra che solo in apparenza è insignificante (Dn 2,34-35), una pietruzza che “si stacca dall’alto”, senza intervento di mano d’uomo: è Dio stesso che la invia per l’uomo, per poter ricostruire tutto secondo il progetto di Dio (Mt 21,42; At 4,11; Ef 2,20): i costruttori infatti l’hanno scartata, ma Dio vuole che diventi basamento di costruzione per la casa nuova dell’umanità nuova, contro la quale nessun attacco potrà portare distruzione (Mt 7,24-25). In lui anche i discepoli sono resi pietre vive, per la costruzione del tempio santo dove Dio desidera abitare in mezzo agli uomini (1Pt 2,4-5).
Questo breve e sintetico excursus che analizza la simbologia artistica in riferimento a quella biblica mostra come il messaggio sotteso dal linguaggio del Fonte battesimale utilizzato nella Cappella Sistina è duplice: ci parla di Dio e dell’uomo, parte sempre dal creatore per giungere alla creatura umana.
Ci dice come la realtà dell’Incarnazione e della Pasqua di Cristo non sia una semplice rivelazione di qualcosa di misterioso, ma una rivelazione misterica, invita cioè gli uomini a entrare dentro il mistero, a prendere parte da protagonisti alla storia della salvezza. In quel fonte comincia una vita nuova, che non avrà fine, e che segnerà per sempre la comunione tra Dio e l’uomo, in un’alleanza sponsale che nessuna forza potrà mai spezzare. Attraverso quel grembo la creatura umana accede nell’intimità di Dio e diventa come lui, partecipando al suo dono di vita, assumendo in sé il suo essere, e transumanando.
Il fonte trova collocazione nell’ambito delle celebrazioni che si svolgono nella Cappella Sistina, che con la sua sinfonia di affreschi fa da sottofondo alla liturgia celebrata dal Santo Padre. Se non si dà una corrispondenza sincronica o puntuale della triplice simbologia nel contesto iconografico della Cappella, molti rimandi allusivi ci consentono di trovare una sorprendente consonanza che illumina il linguaggio artistico.
Se alcuni particolari della creazione di Eva e del peccato originale, che si trovano nella volta, ci possono mettere sulle tracce dell’albero della vita secondo un’interpretazione tutta michelangiolesca, tuttavia è la simbologia solare che risalta immediatamente, ed anzi è la più evidente per la sua collocazione proprio sopra lo spazio celebrativo dell’altare: Cristo possente, attorno al quale, nel giudizio universale, si muovono tutti gli altri personaggi. È lui il centro della storia, quel sole di giustizia che sorge dall’alto, e che Michelangelo ha rappresentato nella sua aurora definitiva, la luce dorata che lo incornicia alle spalle, e che abbraccia anche Maria seduta alla sua destra.
Ci chiediamo se sia legittima la pretesa di aggiungere una nuova componente artistica in un contesto di così alto valore come la Cappella Sistina. La risposta è ancora una volta banale, ma non per questo meno vera: in momenti diversi della storia ed anche con contributi differenti la Cappella è stata arricchita.
Anche la mano degli artisti del nostro tempo ha diritto a partecipare a questa sinfonia che comprende consonanze e dissonanze di mirabile bellezza: «La Chiesa non ha mai avuto come proprio uno stile artistico, ma, secondo l’indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca, creando, nel corso dei secoli, un tesoro artistico da conservarsi con ogni cura.
Anche l’arte del nostro tempo e di tutti i popoli e paesi abbia nella Chiesa libertà di espressione» (Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 123; cfr. Ordinamento Generale del Messale Romano, 3a ed., 289; Caeremoniale Episcoporum, 37). Nel suo contributo, che per certi versi ha anche il pregio di mantenersi umile, al contesto liturgico e artistico, il fonte parla il linguaggio della fede, quello della bellezza comprensibile e ricca di dignità, e con la sua originalità, concorre alla composizione del momento celebrativo senza sminuire, anzi esaltandola attraverso i riflessi, lo spessore della simbologia tradizionale che gli sta intorno.
Pare proprio che teologia ed arte possano tornare a dialogare.
venerdì 10 febbraio 2012
J.S. BACH/ "Vieni dolce morte", una riflessione sulla Cantata 161
Vieni, dolce morte, vieni , riposo benedetto!
Vieni, conducimi nella pace,
perché io sono stanco
di questo mondo!
Vieni, ti attendo.
…I miei occhi sono già chiusi.
Per ben cinque volte ritorna il primo verso citato dall’aria “Komm süsser Tod” di J.S. Bach (BWV 478). E per altre cinque volte ricorre l‘emistichio “vieni, benedetto riposo”.
Dieci volte la stessa nota, dieci volte un invocativo che chiama con il tu la morte stessa, come la si chiama nella Cantata 161: “Vieni Tu, dolce ora della morte”.
La morte dunque è un’ora, l’ora dell’addio al mondo, divenuto troppo angusto, angosciato dalle sue stesse tenebre precludenti lo spazio infinito e pieno di stelle e della luce del sole che l’anima desidera. Uno spazio pieno di angeli, un firmamento di zaffiro splendente nella luce di Cristo (Schwarzen Welt… Blaue Sternenzelt).
L’ora dell’incontro definitivo con Cristo: “Ora voglio vederti, o Gesù (Ich will nun Jesum sehen).
Vederti: è la visione beatifica, che rende beati come il beato (selge) riposo. Là, dove quell’invocazione al selge Ruh, appunto “beato riposo” (e in Tedesco è di genere femminile, come i nomi di molte cose grandi ) indica l’acquietarsi della creazione nel suo compimento, quasi nuovo sonno di Adamo nell’attesa del farsi nuovo di tutte le cose.
È un restare, un riposare; stare su di sé che equivale all’approfondimento di sé: è scendere in sé. Non come stasi e immobilità del cadavere, ma come un “transumanarsi” (si licet…) entrare nella trasfigurazione definitiva.
È, questo riposo, un sempre e nuovo essere creati nelle dimensioni di un nuovo respiro, quello che era all’inizio del tempo e anelava al compimento in Cristo della creazione stessa.
Il riposo è risalire (come – anche – uno scendere) allo stato di beatitudine; è il pulsare del cuore dell’uomo che attinge e si immerge nel Cuore del mondo, così da creare un tessuto in cui tutti i cuori si partecipano, senza smarrire il proprio sigillo di unicità. Non è un perdersi in un panteismo impersonale, un naufragar dolce nel mare dell’oblio come volevano i vertici della saggezza antica: pensiamo allo stoicismo di Cleante di Asso che sentiva Dio come padre, ma non poteva salvare dall’ indeterminazione di un impianto meccanicistico la nostra anima intrisa di materia. Non è possibile cancellarsi. Anche chi, oggi, volesse disperdere le proprie ceneri nello spazio, gettandole da una navetta spaziale, non potrebbe togliere il fatto di essere stato accettato (acceptus, conceptus in sinu matris) nell’ esserci dell’ esistente: vanamente vorremmo nientificarci. “Siamo imbarcati” direbbe Pascal… Dunque la morte è una tappa dell’ essere stesso?
Oppure il morire è puro dissolversi, è cioè vuoto apparire mentre il soggetto che muore non c’è più come pensavano gli altri materialisti, gli epicurei? Qual è il dramma del perder la propria vita invocandone la resurrezione dopo i tre giorni del sepolcro se non la speranza di esser risparmiati dai flutti e riuscir” a riveder le stelle”? E’ veramente la fine la nostra morte? Questo reale non-esser più dell’ essere particolare che siamo è un no definitivo di questa meravigliosa vita alla meravigliosa vita? Con il nulla come risultato?
L’anima cristiana del XVIII secolo che scrive i versi di “Vieni, Dolce morte” – il testo, anteriore al 1736, è di anonimo – e che li inserisce in questo canto, come attinge queste profondità teologiche? Vi arriva perché così sente. Potremo citare qui un grande interprete di Bach, Philipp Harnoncourt, il quale avverte noi, esseri positivi verificazionisti, che “Di ciò di cui non si può parlare, si può, anzi si deve, cantare e far musica, se non si può tacere”.
Sì, l’ anima (ed è bene che riprendiamo a parlare di anima ) sente che la morte è un’ora, un’ora che Cristo ha trasfigurato in un’ora bella, perché passando in quella, si giunge a vedere “il più bello tra i figli degli uomini”.
Sorprendentemente già Platone aveva scritto che “la potenza del Bene si è rifugiata nel Bello”. La morte è l’ approdo al trionfo del Bello, pur in tutto il contrasto angoscioso delle tenebre piene di lacrime e lamenti che sgorgano dal dolore umano che ci avvolge come una stanza delle torture (Marterkammer).
Nel mondo bizantino, sia slavo sia greco, il Crocifisso è visto già nella luce: la luce della resurrezione; da noi (pensiamo a Giotto, al Lorenzetti, all’ Angelico..) vi si scorge la letizia finale del “ Consummatum est”. Il Salvatore svela un arcano sorriso nell’abbraccio finale delle sue braccia confitto al legno amarissimo. Ma nel mondo nordico, tedesco e sofferente dell’angoscia della propria salvezza, spesso l’abbandono e la nudità del Crocifisso è soverchiante (Mein Gott, Mein Gott, warum hast Du mich verlassen?): pensiamo ai fiamminghi, a Gruenewald.
È invece nella musica delle cantate di Bach, dove il tema è proprio il morire, che il mondo tedesco, e in genere il Nord Europa, sente la definitività che si avvicina. Il Grande di Eisenach trattò più volte questo tema, e perciò non giunse impreparato alla morte (Cantate n. 8; 32; 53; 56; 82; 106; 114; 156; 161, 162). Nella Passione secondo Secondo Matteo noi deponiamo Gesù nel sepolcro e ci sediamo ai bordi della pietra dicendo al tramonto del giorno, quel giorno: “Buonanotte, mio Gesù. Mio Gesù: buonanotte”, in un canto straordinariamente sereno.
È, infatti nella musica, con la parola fatta canto partecipato e commosso, che nelle cantate di Bach, come nelle arie e nei corali e nelle Passioni, l’ anima tedesca riafferma l’ortodossia cattolica come grande nostalgia: la musica può in qualche modo superare la lettera della teologia che ci ha così diviso. La parola elevandosi in canto ridiventa ricca, fiorisce con un accento nuovo (accento: ad cantus). La morte è così percepita in tutta la verità del simbolo apostolico e nel giudizio misericordioso di Dio che abbraccia fede e opere del cristiano. E’ una nostalgia che porterà sia Bach, sia Beethoven a scrivere, come fra le loro più care opere la Messa in si minore e la Missa Solemnis. Nel capolavoro del maestro di Bonn, il Credo è come un tempio posato su quattro note centrali che incrociano le due sillabe “cre-do” quasi pilastri di reminiscenza gregoriana.
Si perdoni a chi scrive questa insistenza sull’ animo tedesco o sul senso trasfigurante della Liturgia bizantino-slava (tutti i mesi partecipa alla Divina Liturgia bizantino-slava): è vero però che tutti viviamo di desiderio di una salvezza di questa Europa così trafitta dal Novecento e così evidentemente chiamata a ritornare alle sue origini di realtà fiorita sulle quattro radici : greca, latina, ebraica e cristiana .Il “credo” di Beethoven? Potrebbe essere una tesi da affrontare!
La musica penetra la nostra carne e le nostre ossa: biblicamente le ossa sono come l’ anima: non si dissolvono ma si pietrificano come segno dell’ attesa che su esse tornino i tendini e i muscoli e la pelle (visione di Ezechiele). La musica è come un anticipo di questa realtà finale: sulla musica pietrificata delle nostre ossa sepolte comincia già ad elevarsi la sinfonia di archi e volte e guglie dell’ ultima e definitiva cattedrale. La dimora di Dio con gli uomini che canta essa stessa quale “musica pietrificata”.
Morire è dunque questo dolce passare nel definitivo che vedrà una nuova carne e un mondo infinitamente più bello e grande di questo che pure vede la bellezza del nascere: (del presepe, dell’ adorare beato di Maria, dello stupore sgomento dei piccoli e dell’ inchinarsi dei potenti. Per questo il canto, segnatamente quello di Bach che sembra non terminare mai, riprendendo e variando le stesse intuizioni fino ad esaurirsi (la tavolozza è quella novella delle 24 tonalità da lui stesso temperata) è come un andare da inizio in inizio. Ogni festa una cantata nuova: ne abbiamo più di duecento, ma erano molte di più… E così la liturgia trascorre l’ anno: l' Avvento, il Natale, il Mattino di Pasqua accompagnato dalla processione feriale dei salmi che tengono come in filigrana il lavorare, il gioire della nuzialità e delle feste, il patire e il morire dell’uomo. L’anima della musica è questo canto nuziale, questa musica dell’anima che entra e prende possesso del cuore, fino a ristorare in modo benefico e terapeutico la persona umana.
Mi si permetta qui un ricordo personale. Molti anni fa insegnavo a Mombello: nei locali recuperati dall’ospedale psichiatrico, che peraltro aveva ancora alcuni reparti funzionanti. Ricordo, nella bellissima chiesa cara al Card. Ildefonso Schuster, la “Messa dei pazzi” (come la dicevo fra me senza nominarla).
Queste persone, che vivevano in altri mondi, con così evidenti minorazioni, durante la messa erano attentissime: chi in ginocchio, chi balbettando una preghiera, chi cantando, appunto. Era uno spettacolo commovente e vero. Il tribunale della ragione è il sacrificio di Cristo, dove povero o ricco, sano o malato, piccolo o potente l’ uomo accetta che gli angeli scendano sull’ altare della nostra passione. La Sua passione. La morte fa parte della liturgia, è dunque anch’ essa un canto: Vieni, dolce morte…
Che cos'ha a che fare tutto quello che veniamo dicendo con la “Dolce Morte”, l‘eutanasia? Perché l’ Europa (non solo essa) vuole cantare in astratto la morte? Perché decidere senza Cristo il morire che è per sempre offerta di Cristo al Padre?
Perché pretendere che i bambini possano decidere e firmare questo? (vi sono leggi che fissano questa possibilità ai dodici anni, ciò che sembra sferzare l’ episodio di Gesù dodicenne..)?
Alcuni giorni orsono ho ritrovato un vecchio disco di vinile con incise bellissime opere di Bach. Una in particolare mi colpiva: una trascrizione fatta da Virgil Fox, illustre organista, e da lui stesso eseguita: ” Vieni dolce morte”. Ampio il procedere iniziale, povero e generoso e vieppiù intrecciato di lirismi e spunti nuovi; poi fiume impetuoso in un “forte” sempre più “forte”.
”Parole tornanti e ritornanti: ma non parole perché la trascrizione è per organo solo: echi e meta-, che viene in soccorso parole, invocazioni e grido finale: finale consegna di sé echeggiante l’ indicibile grido del Crocifisso. Eppure gioia.
Chi scrive ha fatto ricerche ma non ha ancora rintracciato lo spartito e ne sarebbe grato a chi ne avesse la pazienza di cercarlo e l’abilità di trovarlo.
Febbraio 2012
Nell’anniversario di Eluana.
Eluana: colei che porta aiuto…che viene in soccorso…
Vieni, dolce morte. Testo di anonimo, anno 1724, aria di J.S.Bach. BWV 478
Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto,
vieni, conducimi alla pace
perché sono stanco di questo mondo.
Oh vieni, ti aspetto.
Vieni subito ed accompagnami:
chiudimi gli occhi
Vieni, riposo benedetto.
Vieni, dolce morte, vini, riposo benedetto.
Più bello essere in cielo,
là ogni gioia è più grande.
Per questo ad ogni ora
sono pronto a pronunciare il mio saluto.
I miei occhi si chiudono.
Vieni, riposo benedetto.
Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto.
O mondo, luogo di supplizi,
rimani lì con i tuoi lamenti straziati;
da questo mondo di dolori
io anelo al Cielo
la morte mi porterà là
Vieni, riposo benedetto.
Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto,
ciò che pur son stato
ora è tra le schiere degli angeli:
via da questo oscuro mondo
su, verso l’azzurro cielo stellato
su fino al Paradiso
o grazioso riposo!
Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto,
ora voglio vedere Gesù e stare fra gli angeli.
Tutto è ormai compiuto.
E così: buona notte a te o mondo
I miei occhi già si chiudono.
Vieni benedetto riposo.
(trad. it. Lorenzo Fornasieri)
di Lorenzo Fornasieri
da Il Sussidiario.net
Vieni, conducimi nella pace,
perché io sono stanco
di questo mondo!
Vieni, ti attendo.
…I miei occhi sono già chiusi.
Per ben cinque volte ritorna il primo verso citato dall’aria “Komm süsser Tod” di J.S. Bach (BWV 478). E per altre cinque volte ricorre l‘emistichio “vieni, benedetto riposo”.
Dieci volte la stessa nota, dieci volte un invocativo che chiama con il tu la morte stessa, come la si chiama nella Cantata 161: “Vieni Tu, dolce ora della morte”.
La morte dunque è un’ora, l’ora dell’addio al mondo, divenuto troppo angusto, angosciato dalle sue stesse tenebre precludenti lo spazio infinito e pieno di stelle e della luce del sole che l’anima desidera. Uno spazio pieno di angeli, un firmamento di zaffiro splendente nella luce di Cristo (Schwarzen Welt… Blaue Sternenzelt).
L’ora dell’incontro definitivo con Cristo: “Ora voglio vederti, o Gesù (Ich will nun Jesum sehen).
Vederti: è la visione beatifica, che rende beati come il beato (selge) riposo. Là, dove quell’invocazione al selge Ruh, appunto “beato riposo” (e in Tedesco è di genere femminile, come i nomi di molte cose grandi ) indica l’acquietarsi della creazione nel suo compimento, quasi nuovo sonno di Adamo nell’attesa del farsi nuovo di tutte le cose.
È un restare, un riposare; stare su di sé che equivale all’approfondimento di sé: è scendere in sé. Non come stasi e immobilità del cadavere, ma come un “transumanarsi” (si licet…) entrare nella trasfigurazione definitiva.
È, questo riposo, un sempre e nuovo essere creati nelle dimensioni di un nuovo respiro, quello che era all’inizio del tempo e anelava al compimento in Cristo della creazione stessa.
Il riposo è risalire (come – anche – uno scendere) allo stato di beatitudine; è il pulsare del cuore dell’uomo che attinge e si immerge nel Cuore del mondo, così da creare un tessuto in cui tutti i cuori si partecipano, senza smarrire il proprio sigillo di unicità. Non è un perdersi in un panteismo impersonale, un naufragar dolce nel mare dell’oblio come volevano i vertici della saggezza antica: pensiamo allo stoicismo di Cleante di Asso che sentiva Dio come padre, ma non poteva salvare dall’ indeterminazione di un impianto meccanicistico la nostra anima intrisa di materia. Non è possibile cancellarsi. Anche chi, oggi, volesse disperdere le proprie ceneri nello spazio, gettandole da una navetta spaziale, non potrebbe togliere il fatto di essere stato accettato (acceptus, conceptus in sinu matris) nell’ esserci dell’ esistente: vanamente vorremmo nientificarci. “Siamo imbarcati” direbbe Pascal… Dunque la morte è una tappa dell’ essere stesso?
Oppure il morire è puro dissolversi, è cioè vuoto apparire mentre il soggetto che muore non c’è più come pensavano gli altri materialisti, gli epicurei? Qual è il dramma del perder la propria vita invocandone la resurrezione dopo i tre giorni del sepolcro se non la speranza di esser risparmiati dai flutti e riuscir” a riveder le stelle”? E’ veramente la fine la nostra morte? Questo reale non-esser più dell’ essere particolare che siamo è un no definitivo di questa meravigliosa vita alla meravigliosa vita? Con il nulla come risultato?
L’anima cristiana del XVIII secolo che scrive i versi di “Vieni, Dolce morte” – il testo, anteriore al 1736, è di anonimo – e che li inserisce in questo canto, come attinge queste profondità teologiche? Vi arriva perché così sente. Potremo citare qui un grande interprete di Bach, Philipp Harnoncourt, il quale avverte noi, esseri positivi verificazionisti, che “Di ciò di cui non si può parlare, si può, anzi si deve, cantare e far musica, se non si può tacere”.
Sì, l’ anima (ed è bene che riprendiamo a parlare di anima ) sente che la morte è un’ora, un’ora che Cristo ha trasfigurato in un’ora bella, perché passando in quella, si giunge a vedere “il più bello tra i figli degli uomini”.
Sorprendentemente già Platone aveva scritto che “la potenza del Bene si è rifugiata nel Bello”. La morte è l’ approdo al trionfo del Bello, pur in tutto il contrasto angoscioso delle tenebre piene di lacrime e lamenti che sgorgano dal dolore umano che ci avvolge come una stanza delle torture (Marterkammer).
Nel mondo bizantino, sia slavo sia greco, il Crocifisso è visto già nella luce: la luce della resurrezione; da noi (pensiamo a Giotto, al Lorenzetti, all’ Angelico..) vi si scorge la letizia finale del “ Consummatum est”. Il Salvatore svela un arcano sorriso nell’abbraccio finale delle sue braccia confitto al legno amarissimo. Ma nel mondo nordico, tedesco e sofferente dell’angoscia della propria salvezza, spesso l’abbandono e la nudità del Crocifisso è soverchiante (Mein Gott, Mein Gott, warum hast Du mich verlassen?): pensiamo ai fiamminghi, a Gruenewald.
È invece nella musica delle cantate di Bach, dove il tema è proprio il morire, che il mondo tedesco, e in genere il Nord Europa, sente la definitività che si avvicina. Il Grande di Eisenach trattò più volte questo tema, e perciò non giunse impreparato alla morte (Cantate n. 8; 32; 53; 56; 82; 106; 114; 156; 161, 162). Nella Passione secondo Secondo Matteo noi deponiamo Gesù nel sepolcro e ci sediamo ai bordi della pietra dicendo al tramonto del giorno, quel giorno: “Buonanotte, mio Gesù. Mio Gesù: buonanotte”, in un canto straordinariamente sereno.
È, infatti nella musica, con la parola fatta canto partecipato e commosso, che nelle cantate di Bach, come nelle arie e nei corali e nelle Passioni, l’ anima tedesca riafferma l’ortodossia cattolica come grande nostalgia: la musica può in qualche modo superare la lettera della teologia che ci ha così diviso. La parola elevandosi in canto ridiventa ricca, fiorisce con un accento nuovo (accento: ad cantus). La morte è così percepita in tutta la verità del simbolo apostolico e nel giudizio misericordioso di Dio che abbraccia fede e opere del cristiano. E’ una nostalgia che porterà sia Bach, sia Beethoven a scrivere, come fra le loro più care opere la Messa in si minore e la Missa Solemnis. Nel capolavoro del maestro di Bonn, il Credo è come un tempio posato su quattro note centrali che incrociano le due sillabe “cre-do” quasi pilastri di reminiscenza gregoriana.
Si perdoni a chi scrive questa insistenza sull’ animo tedesco o sul senso trasfigurante della Liturgia bizantino-slava (tutti i mesi partecipa alla Divina Liturgia bizantino-slava): è vero però che tutti viviamo di desiderio di una salvezza di questa Europa così trafitta dal Novecento e così evidentemente chiamata a ritornare alle sue origini di realtà fiorita sulle quattro radici : greca, latina, ebraica e cristiana .Il “credo” di Beethoven? Potrebbe essere una tesi da affrontare!
La musica penetra la nostra carne e le nostre ossa: biblicamente le ossa sono come l’ anima: non si dissolvono ma si pietrificano come segno dell’ attesa che su esse tornino i tendini e i muscoli e la pelle (visione di Ezechiele). La musica è come un anticipo di questa realtà finale: sulla musica pietrificata delle nostre ossa sepolte comincia già ad elevarsi la sinfonia di archi e volte e guglie dell’ ultima e definitiva cattedrale. La dimora di Dio con gli uomini che canta essa stessa quale “musica pietrificata”.
Morire è dunque questo dolce passare nel definitivo che vedrà una nuova carne e un mondo infinitamente più bello e grande di questo che pure vede la bellezza del nascere: (del presepe, dell’ adorare beato di Maria, dello stupore sgomento dei piccoli e dell’ inchinarsi dei potenti. Per questo il canto, segnatamente quello di Bach che sembra non terminare mai, riprendendo e variando le stesse intuizioni fino ad esaurirsi (la tavolozza è quella novella delle 24 tonalità da lui stesso temperata) è come un andare da inizio in inizio. Ogni festa una cantata nuova: ne abbiamo più di duecento, ma erano molte di più… E così la liturgia trascorre l’ anno: l' Avvento, il Natale, il Mattino di Pasqua accompagnato dalla processione feriale dei salmi che tengono come in filigrana il lavorare, il gioire della nuzialità e delle feste, il patire e il morire dell’uomo. L’anima della musica è questo canto nuziale, questa musica dell’anima che entra e prende possesso del cuore, fino a ristorare in modo benefico e terapeutico la persona umana.
Mi si permetta qui un ricordo personale. Molti anni fa insegnavo a Mombello: nei locali recuperati dall’ospedale psichiatrico, che peraltro aveva ancora alcuni reparti funzionanti. Ricordo, nella bellissima chiesa cara al Card. Ildefonso Schuster, la “Messa dei pazzi” (come la dicevo fra me senza nominarla).
Queste persone, che vivevano in altri mondi, con così evidenti minorazioni, durante la messa erano attentissime: chi in ginocchio, chi balbettando una preghiera, chi cantando, appunto. Era uno spettacolo commovente e vero. Il tribunale della ragione è il sacrificio di Cristo, dove povero o ricco, sano o malato, piccolo o potente l’ uomo accetta che gli angeli scendano sull’ altare della nostra passione. La Sua passione. La morte fa parte della liturgia, è dunque anch’ essa un canto: Vieni, dolce morte…
Che cos'ha a che fare tutto quello che veniamo dicendo con la “Dolce Morte”, l‘eutanasia? Perché l’ Europa (non solo essa) vuole cantare in astratto la morte? Perché decidere senza Cristo il morire che è per sempre offerta di Cristo al Padre?
Perché pretendere che i bambini possano decidere e firmare questo? (vi sono leggi che fissano questa possibilità ai dodici anni, ciò che sembra sferzare l’ episodio di Gesù dodicenne..)?
Alcuni giorni orsono ho ritrovato un vecchio disco di vinile con incise bellissime opere di Bach. Una in particolare mi colpiva: una trascrizione fatta da Virgil Fox, illustre organista, e da lui stesso eseguita: ” Vieni dolce morte”. Ampio il procedere iniziale, povero e generoso e vieppiù intrecciato di lirismi e spunti nuovi; poi fiume impetuoso in un “forte” sempre più “forte”.
”Parole tornanti e ritornanti: ma non parole perché la trascrizione è per organo solo: echi e meta-, che viene in soccorso parole, invocazioni e grido finale: finale consegna di sé echeggiante l’ indicibile grido del Crocifisso. Eppure gioia.
Chi scrive ha fatto ricerche ma non ha ancora rintracciato lo spartito e ne sarebbe grato a chi ne avesse la pazienza di cercarlo e l’abilità di trovarlo.
Febbraio 2012
Nell’anniversario di Eluana.
Eluana: colei che porta aiuto…che viene in soccorso…
Vieni, dolce morte. Testo di anonimo, anno 1724, aria di J.S.Bach. BWV 478
Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto,
vieni, conducimi alla pace
perché sono stanco di questo mondo.
Oh vieni, ti aspetto.
Vieni subito ed accompagnami:
chiudimi gli occhi
Vieni, riposo benedetto.
Vieni, dolce morte, vini, riposo benedetto.
Più bello essere in cielo,
là ogni gioia è più grande.
Per questo ad ogni ora
sono pronto a pronunciare il mio saluto.
I miei occhi si chiudono.
Vieni, riposo benedetto.
Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto.
O mondo, luogo di supplizi,
rimani lì con i tuoi lamenti straziati;
da questo mondo di dolori
io anelo al Cielo
la morte mi porterà là
Vieni, riposo benedetto.
Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto,
ciò che pur son stato
ora è tra le schiere degli angeli:
via da questo oscuro mondo
su, verso l’azzurro cielo stellato
su fino al Paradiso
o grazioso riposo!
Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto,
ora voglio vedere Gesù e stare fra gli angeli.
Tutto è ormai compiuto.
E così: buona notte a te o mondo
I miei occhi già si chiudono.
Vieni benedetto riposo.
(trad. it. Lorenzo Fornasieri)
di Lorenzo Fornasieri
da Il Sussidiario.net
domenica 5 febbraio 2012
Szymborska, come un vino amabile
[da Tracce.it]
di Davide Rondoni
Un vino amabile della poesia contemporanea. Carica di anni e di onori se ne è andata Wislawa Szymborska la poetessa dal nome difficile e dalla poesia apparentemente facile che ha riscosso attenzione in tutto il mondo specie dopo l’assegnazione del Nobel.
La sua voce poetica, attenta a non oltrepassare la soglia di una colloquialità cordiale e complice con il lettore - con un lettore spesso allontanato da inutili strèpiti o da intorbidamenti del linguaggio da taluni sedicenti poeti contemporanei - ha offerto le epifanie di senso di una quotidianità vissuta con attenzione ironica e profonda. Un vino amabile, nel senso di un gesto che non chiede al lettore di essere un “letterato” e di non scomodarsi troppo. Mai il suo trascendere le apparenze “strappa” a un livello veramente inquietante. Si tratta, per così dire, di un primo acquisto, di un risveglio di coscienza. Proprio alla morte, la poetessa aveva dedicato una delle sue poesie ironiche e profonde:
Sulla morte, senza esagerare
Non s'intende di scherzi,
stelle, ponti,
tessitura, miniere, lavoro dei campi,
costruzione di navi e cottura di dolci.
Quando conversiamo del domani
intromette la sua ultima parola
a sproposito.
Non sa fare neppure ciò
che attiene al suo mestiere:
né scavare una fossa,
né mettere insieme una bara,
né rassettare il disordine che lascia.
Occupata ad uccidere,
lo fa in modo maldestro,
senza metodo né abilità.
Come se con ognuno di noi stesse imparando.
Vada per i trionfi,
ma quante disfatte,
colpi a vuoto
e tentativi ripetuti da capo.
A volte le manca la forza
di far cadere una mosca in volo.
Più di un bruco
la batte in velocità.
Tutti quei bulbi, baccelli,
antenne, pinne, trachee,
piumaggi nuziali e pelame invernale
testimoniano i ritardi
del suo svogliato lavoro.
La cattiva volontà non basta
e perfino il nostro aiuto con guerre e rivoluzioni
è, almeno finora, insufficiente.
I cuori battono nelle uova.
Crescono gli scheletri dei neonati.
Dai semi spuntano le prime due foglioline,
e spesso anche grandi alberi all'orizzonte.
Chi ne afferma l'onnipotenza
è lui stesso la prova vivente
che essa onnipotente non è.
Non c'è vita
che almeno per un attimo
non sia immortale.
La morte
è sempre in ritardo di quell'attimo.
Invano scuote la maniglia
d'una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.
Probabilmente in questo mondo distratto da chiacchiere a vanvera e da un profluvio di scrittura poco interessata alle epifanie del vivente e alle profonde inquietudini, la poesia della Szymborska ha avuto il compito di riavvicinare alla voce della poesia tanti che se ne sentivano esclusi o lontani. Lasciando perdere le polemiche che hanno impegnato chi le ha voluto fare i raggi x sulla sua maggiore o minore distanza dai regimi totalitari che hanno tragicamente segnato la vita del suo Paese, resta il fatto che la intelligenza arguta e gentile di questa signora delle lettere è uno dei frutti migliori della tradizione recente della poesia polacca. I fiori più alti e affascinanti di quella storia si danno forse in altre pagine, in altre voci: basti pensare a grandi poeti come Zbigniew Herbert o come Jan Twardoski, pubblicati in Italia da Adelphi e da Marietti. Poeti meno noti, poichè non baciati dalla bocca fortunosa e ambigua delle commissioni Nobel, ma certo più forti e azzardati. E meno “accomodanti” verso la mentalità dominante del nostro tempo. Quella polacca è infatti una delle tradizioni del Novecento più vive, come mostrano anche i più noti Czeslaw Milosz e la stessa opera poetica di grande valore di un ex-operaio diventato molto noto in seguito per aver fatto un altro mestiere, Karol Wojtyla.
di Davide Rondoni
02/02/2012 - Premio Nobel nel 1996, è stata uno dei «frutti
migliori» della tradizione poetica polacca. Ironica e profonda, «ha
riavvicinato ai versi tanti che se ne sentivano esclusi». Strappando
l'apparenza. Come in questa poesia dedicata alla morte...
Wislawa Szymborska è scomparsa l'1 febbraio 2012.
Un vino amabile della poesia contemporanea. Carica di anni e di onori se ne è andata Wislawa Szymborska la poetessa dal nome difficile e dalla poesia apparentemente facile che ha riscosso attenzione in tutto il mondo specie dopo l’assegnazione del Nobel.
La sua voce poetica, attenta a non oltrepassare la soglia di una colloquialità cordiale e complice con il lettore - con un lettore spesso allontanato da inutili strèpiti o da intorbidamenti del linguaggio da taluni sedicenti poeti contemporanei - ha offerto le epifanie di senso di una quotidianità vissuta con attenzione ironica e profonda. Un vino amabile, nel senso di un gesto che non chiede al lettore di essere un “letterato” e di non scomodarsi troppo. Mai il suo trascendere le apparenze “strappa” a un livello veramente inquietante. Si tratta, per così dire, di un primo acquisto, di un risveglio di coscienza. Proprio alla morte, la poetessa aveva dedicato una delle sue poesie ironiche e profonde:
Sulla morte, senza esagerare
Non s'intende di scherzi,
stelle, ponti,
tessitura, miniere, lavoro dei campi,
costruzione di navi e cottura di dolci.
Quando conversiamo del domani
intromette la sua ultima parola
a sproposito.
Non sa fare neppure ciò
che attiene al suo mestiere:
né scavare una fossa,
né mettere insieme una bara,
né rassettare il disordine che lascia.
Occupata ad uccidere,
lo fa in modo maldestro,
senza metodo né abilità.
Come se con ognuno di noi stesse imparando.
Vada per i trionfi,
ma quante disfatte,
colpi a vuoto
e tentativi ripetuti da capo.
A volte le manca la forza
di far cadere una mosca in volo.
Più di un bruco
la batte in velocità.
Tutti quei bulbi, baccelli,
antenne, pinne, trachee,
piumaggi nuziali e pelame invernale
testimoniano i ritardi
del suo svogliato lavoro.
La cattiva volontà non basta
e perfino il nostro aiuto con guerre e rivoluzioni
è, almeno finora, insufficiente.
I cuori battono nelle uova.
Crescono gli scheletri dei neonati.
Dai semi spuntano le prime due foglioline,
e spesso anche grandi alberi all'orizzonte.
Chi ne afferma l'onnipotenza
è lui stesso la prova vivente
che essa onnipotente non è.
Non c'è vita
che almeno per un attimo
non sia immortale.
La morte
è sempre in ritardo di quell'attimo.
Invano scuote la maniglia
d'una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.
Probabilmente in questo mondo distratto da chiacchiere a vanvera e da un profluvio di scrittura poco interessata alle epifanie del vivente e alle profonde inquietudini, la poesia della Szymborska ha avuto il compito di riavvicinare alla voce della poesia tanti che se ne sentivano esclusi o lontani. Lasciando perdere le polemiche che hanno impegnato chi le ha voluto fare i raggi x sulla sua maggiore o minore distanza dai regimi totalitari che hanno tragicamente segnato la vita del suo Paese, resta il fatto che la intelligenza arguta e gentile di questa signora delle lettere è uno dei frutti migliori della tradizione recente della poesia polacca. I fiori più alti e affascinanti di quella storia si danno forse in altre pagine, in altre voci: basti pensare a grandi poeti come Zbigniew Herbert o come Jan Twardoski, pubblicati in Italia da Adelphi e da Marietti. Poeti meno noti, poichè non baciati dalla bocca fortunosa e ambigua delle commissioni Nobel, ma certo più forti e azzardati. E meno “accomodanti” verso la mentalità dominante del nostro tempo. Quella polacca è infatti una delle tradizioni del Novecento più vive, come mostrano anche i più noti Czeslaw Milosz e la stessa opera poetica di grande valore di un ex-operaio diventato molto noto in seguito per aver fatto un altro mestiere, Karol Wojtyla.
lunedì 30 gennaio 2012
Chesterton e la crisi moderna
Il "distributismo" con persona e famiglia al centro dell'economia
di Gilberto Castrovilla
ROMA, sabato, 28 gennaio 2012 (ZENIT.org).- “Chesterton & Pound - La persona contro la crisi”. E’ questo il titolo di un incontro che si è svolto il 27 Gennaio 2012 a Roma presso la sede dell’associazione LabCom.
Tra gli intervenuti l’avv. Marco Sermarini, presidente della Società Chestertoniana Italiana, che ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande.
Lei ritiene che Chesterton abbia qualcosa da dire a proposito dell’attuale crisi?
Sermarini: In effetti sì! Tanto più che Chesterton parte dalla dottrina sociale della Chiesa, precisamente da quella Rerum Novarum che ispirò lui, lo scrittore inglese Hilaire Belloc e padre Vincent McNabb ad elaborare il distributismo, quella teoria sociale e politica che vuole la famiglia al centro della società, protagonista dello sviluppo sociale ed economico della propria terra, proprietaria almeno della sua casa e di ciò che gli necessita per vivere liberamente, intraprendente in campo economico con piccole imprese, costruttrice di novità. Una teoria equidistante da capitalismo e socialismo...
In che senso?
Sermarini: Nel senso che lei può leggere con chiarezza nel brano che le cito, estratto da Il profilo della ragionevolezza, una delle opere fondamentali per chi vuole conoscere il pensiero distributista di Chesterton, pubblicata per la prima volta da Lindau pochi mesi fa: “Il capitalismo e l'affarismo, nei loro recenti sviluppi, hanno predicato l'espansione degli affari anziché la conservazione dei beni personali; nel migliore dei casi hanno tentato di travestire il borsaiolo attribuendogli alcune virtù del pirata. Quanto al comunismo, corregge il borsaiolo solo vietando le borse e le tasche”. Mi sembra abbastanza chiaro...
In altre parole?
Sermarini: Chesterton ed i suoi amici sostenevano che capitalismo e socialismo fossero due lati della stessa medaglia e che comprimessero la libertà e il corretto sviluppo di uomini e società. Essi pensavano invece che una società armoniosa può sussistere solo a patto di ripristinare l’ordine tradizionale, cioè quello che vede la famiglia proprietaria di casa e terra, in un certo senso economicamente autonoma sulle proprie gambe, esercente attività imprenditoriali in cui i protagonisti non siano “dipendenti” ma cooperatori della stessa vicenda sociale. In un certo senso è il tentativo di ristabilire oggi ciò che aveva costruito la civitas christiana ossia l’ordine sociale medioevale. Dice infatti Chesterton: “Man mano che ciascun gruppo o famiglia si riapproprierà dell'esperienza reale della proprietà privata, diventerà un centro di influenza, una missione”. Possiamo dire che Chesterton riprese le mosse dei grandi santi medioevali da San Benedetto da Norcia a San Tommaso d’Aquino. Circa l’autonomia degli uomini nel lavoro ecco cosa diceva: “La nostra società è così anormale che l’uomo normale non sogna mai di avere la normale occupazione di occuparsi della sua proprietà. Quando sceglie un mestiere, sceglie uno dei diecimila mestieri che comportano l’occuparsi della proprietà dell’altra gente”.
Ma oggi tutto ciò le sembra possibile?
Sermarini: l’esperienza più compiuta del distributismo attualmente esistente è la cooperativa Mondragon in Spagna, che basandosi su questi principi ha costruito un’impresa ricca di migliaia di collaboratori artigiani e tecnici nei più disparati e complessi campi. Più in piccolo posso dire che anche in Italia c’è chi sta organizzandosi: dalle mie parti, nelle Marche, abbiamo dato vita ad una scuola media e superiore totalmente libera che si regge su chi la fa, conta sulla collaborazione delle famiglie coinvolte e dei ragazzi stessi, oltre che ad un sistema di aiuto reciproco tra famiglie che spazia dall’educazione dei figli al lavoro ed anche al sostegno finanziario.
E Chesterton cosa ha a che fare con Ezra Pound?
Sermarini: I due scrittori sono contemporanei (Pound era di una decina d’anni più giovane di GKC), si conobbero e frequentarono, condivisero parte delle loro idee seppure partendo da presupposti differenti ed arrivando ad esiti altrettanto differenti: l’idea che il capitalismo come il socialismo fossero sistemi problematici e di per sé malsani, l’idea di lottare contro la grande usura, l’idea che la persona possa avere le possibilità di lottare per ciò in cui crede. Per Chesterton le sue idee sociali e politiche (che crearono ai suoi tempi un certo movimento culturale e sociale in cui furono coinvolti tantissimi giovani) erano figlie della Chiesa Cattolica e miravano ad edificare la Chiesa e la vera libertà dell’uomo nella società.
martedì 17 gennaio 2012
"Per Sempre", l'ultimo libro della Tamaro, dove l'amore tocca credenti e non
"Per Sempre"
L'ultimo libro della Tamaro, dove l'amore tocca credenti e non
di Titti Del Greco
ROMA, sabato, 14 gennaio 2012 (ZENIT.org).-“Per sempre”, edito da Giunti, è l’ultimo capolavoro di Susanna Tamaro, triestina, classe 1957 diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma. La trama: Nora è morta da 15 anni, e Matteo, un medico affermato, s’interroga in modo ossessivo su quale possa essere il percorso da intraprendere dopo la perdita di sua moglie, suo figlio Davide, e la bambina in grembo a sua madre. Un viaggio denso di sentimenti tumultuosi e contrastanti: amore e dolore, ricordi che ritornano dal passato e che fanno da cornice a tutte le domande che un uomo, imbrigliato in un lutto così efferato, si pone. Matteo, da anni, si ritira spesso in un paesaggio naturale molto suggestivo, dove vive le sue intense riflessioni delineando i protagonisti passati e presenti della sua vita in un back round che spesso sfiora la lirica. Appare sconcertato da quanto accaduto, e non smette di raccontarsi e di vivere mille volte la sua storia intensa e dolorosa entrando, come Giobbe, in un dialogo intimo con Dio.
Appare evidente fin dalle prime pagine che l’autrice già nota per il grande successo “Va dove ti porta il cuore”, un bestseller che ha venduto più di 14 mila copie in tutto il mondo, creda che le relazioni più profonde, abbiano impresse una sottile valenza di eternità e questa è un’esperienza che viviamo un po’ tutti quando ci capita di imbatterci in una qualsiasi passione… E' come se percepissimo una sorta di naturale esigenza di infinitezza propria dell’animo umano... qualcosa di molto misterioso che sembra essere impresso nella nostro “io ontologico” e che viene a sussurrarci la frase: io voglio amarti per sempre.
Ma soffermiamoci sul protagonista: ciò che si snoda intorno a Matteo sembra richiamare la storia del giusto perseguitato. Matteo vive la felicità di un attimo con Nora e suo figlio Davide ma solo dopo pochi anni, in attesa del secondo figlio perde tutto… La tragedia irrompe nella sua vita a causa di un banale incidente (si parlerà anche di suicidio ma la realtà è che Nora si è schiantata a causa di un aneurisma cerebrale) e in un attimo tutto finisce e nulla più sembra avere senso.
Matteo è l’uomo dei dolori, si interroga , non capisce perché lo scenario della sua mente è completamente stravolto e lui, in prima battuta, si sente catapultato in una sorta di cieco e pagano fato verso una destinazione senza meta, dove ogni sorta di orizzonte appare compromesso. E dovrà fare un lungo cammino di discesa , dovrà sprofondare nell’abisso del dolore (Kenosis) e del non senso prima di recuperare se stesso e la sua più profonda ragione di esistere.
Matteo soffre ma non si ribella e, adesso più che mai, ama ritirarsi in un luogo solitario con una morfologia paesaggistica spettacolare che ne fa da sfondo…..in un impenetrabile nascondimento tra le bellezze del Creato, luoghi molto cari anche all’autrice dai quali si è ispirata per scrivere il romanzo…in una atmosfera - ci ha detto in un’intervista –dove ama camminare in solitudine, immersa nei suoi pensieri per ragionare, riflettere, farsi sorprendere da tutto ciò che la circonda, tra azione e contemplazione, esercitando perfettamente le qualità di Marta e Maria dei Vangeli!
Ma il percorso di Matteo, visto che neppure in ebraico la parola “caso “ non esiste, è una sorta di pellegrinaggio legato ampiamente al credo cristiano e il romanzo che è stato pensato in tale prospettiva , porta con sé tematiche forti . Infatti , se lo analizziamo a fondo, ci accorgiamo che la morte rappresenta proprio il suo filo conduttore. E questo, secondo la Tamaro, perché la morte è il più grande tabù dei nostri giorni. Se guardiamo le cose da un punto di vista antropologico,ci accorgiamo che si vive come se la morte fosse radicalmente bandita. Una sorta di alienazione collettiva tipica di questo mondo capitalista, globalizzato, solipsista, relativista permea il sociale : i più forti si ubriacano con la rincorsa al potere, alla fama, al successo, i più deboli con alcool e droghe di ogni genere. Secondo la Tamaro, invece, se non si affronta il grande mistero della morte non appare praticabile alcun percorso spirituale. “Nessuna indagine, nessuna interrogazione profonda - ha affermato con forza in più di una circostanza - può sussistere senza un’attenta indagine di finitezza”!
Saranno necessari anni di isolamento e di errori perché Matteo, ripeto, tra solitudine e scelte folli , deserti impraticabili e silenzi interminabili si rimpadronisca di se stesso e di tutto ciò che gli è rimasto e che continua a vivere intorno a lui: il padre Guido, il lavoro da medico, il suo piccolo rifugio in montagna, gli amici, l’ergoterapia, lo “sprofondamento “ tra le cose del creato; tutte risorse che, pian piano, ridoneranno senso al suo quotidiano.
Matteo vincerà la sua crisi quando, dal pensiero solitario, ricomincerà a percepire la speranza e a capire che adesso è necessario uscire dalla chiusura in se stesso che lo aveva blindato nel suo ego, per tornare a credere che l’uomo, nel senso più alto, si realizza solo attraverso la relazione e che l’amore rappresenta la via per il compimento di tale traguardo.
Anche il papà di Matteo, Guido è una figura portante del romanzo. Forse ne rappresenta proprio il fulcro forse perché nel pensiero dell’autrice c’era l’idea di restituire forza e dignità alla figura maschile che vive una crisi odierna senza pari.
Guido, cieco e solo apparentemente debole, morirà lasciando una commovente lettera al figlio quale preziosissimo testamento spirituale. Anche questo dettaglio procurerà in Matteo una sorta di spinta a rinascere dal fondo perché sarà il momento della presa di coscienza di “un amore unico e speciale – sostiene la Tamaro - che accoglie, che genera e continua a generare chi si è generato, di un riscatto, di una vera trasfigurazione.
“Per sempre” è un capolavoro dell’amore in un vivere cristiano, è una storia intessuta con la forza di chi crede, come la Tamaro, in valori che sono eterni, è un romanzo che tocca credenti e non perché, ripeto, tutti vorrebbero amare “per sempre”!
Ma è anche un monito per le coppie moderne che si stancano troppo presto di amare, per tutti coloro che hanno paura di amare, e viene a ricordarci che, chi ama deve necessariamente compromettersi.
“Per sempre”, infine, è anche la storia di una tragedia che si compie, di uno sprofondamento disperato del protagonista che, però, sottende un capovolgimento di prospettiva, un impercettibile squarcio di luce che si fa sempre più tangibile e che lascia trapelare che esiste una ineluttabile speranza rivoluzionaria: dentro ogni uomo vive una scintilla divina che, puntualmente, riemerge.
L'ultimo libro della Tamaro, dove l'amore tocca credenti e non
di Titti Del Greco
ROMA, sabato, 14 gennaio 2012 (ZENIT.org).-“Per sempre”, edito da Giunti, è l’ultimo capolavoro di Susanna Tamaro, triestina, classe 1957 diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma. La trama: Nora è morta da 15 anni, e Matteo, un medico affermato, s’interroga in modo ossessivo su quale possa essere il percorso da intraprendere dopo la perdita di sua moglie, suo figlio Davide, e la bambina in grembo a sua madre. Un viaggio denso di sentimenti tumultuosi e contrastanti: amore e dolore, ricordi che ritornano dal passato e che fanno da cornice a tutte le domande che un uomo, imbrigliato in un lutto così efferato, si pone. Matteo, da anni, si ritira spesso in un paesaggio naturale molto suggestivo, dove vive le sue intense riflessioni delineando i protagonisti passati e presenti della sua vita in un back round che spesso sfiora la lirica. Appare sconcertato da quanto accaduto, e non smette di raccontarsi e di vivere mille volte la sua storia intensa e dolorosa entrando, come Giobbe, in un dialogo intimo con Dio.
Appare evidente fin dalle prime pagine che l’autrice già nota per il grande successo “Va dove ti porta il cuore”, un bestseller che ha venduto più di 14 mila copie in tutto il mondo, creda che le relazioni più profonde, abbiano impresse una sottile valenza di eternità e questa è un’esperienza che viviamo un po’ tutti quando ci capita di imbatterci in una qualsiasi passione… E' come se percepissimo una sorta di naturale esigenza di infinitezza propria dell’animo umano... qualcosa di molto misterioso che sembra essere impresso nella nostro “io ontologico” e che viene a sussurrarci la frase: io voglio amarti per sempre.
Ma soffermiamoci sul protagonista: ciò che si snoda intorno a Matteo sembra richiamare la storia del giusto perseguitato. Matteo vive la felicità di un attimo con Nora e suo figlio Davide ma solo dopo pochi anni, in attesa del secondo figlio perde tutto… La tragedia irrompe nella sua vita a causa di un banale incidente (si parlerà anche di suicidio ma la realtà è che Nora si è schiantata a causa di un aneurisma cerebrale) e in un attimo tutto finisce e nulla più sembra avere senso.
Matteo è l’uomo dei dolori, si interroga , non capisce perché lo scenario della sua mente è completamente stravolto e lui, in prima battuta, si sente catapultato in una sorta di cieco e pagano fato verso una destinazione senza meta, dove ogni sorta di orizzonte appare compromesso. E dovrà fare un lungo cammino di discesa , dovrà sprofondare nell’abisso del dolore (Kenosis) e del non senso prima di recuperare se stesso e la sua più profonda ragione di esistere.
Matteo soffre ma non si ribella e, adesso più che mai, ama ritirarsi in un luogo solitario con una morfologia paesaggistica spettacolare che ne fa da sfondo…..in un impenetrabile nascondimento tra le bellezze del Creato, luoghi molto cari anche all’autrice dai quali si è ispirata per scrivere il romanzo…in una atmosfera - ci ha detto in un’intervista –dove ama camminare in solitudine, immersa nei suoi pensieri per ragionare, riflettere, farsi sorprendere da tutto ciò che la circonda, tra azione e contemplazione, esercitando perfettamente le qualità di Marta e Maria dei Vangeli!
Ma il percorso di Matteo, visto che neppure in ebraico la parola “caso “ non esiste, è una sorta di pellegrinaggio legato ampiamente al credo cristiano e il romanzo che è stato pensato in tale prospettiva , porta con sé tematiche forti . Infatti , se lo analizziamo a fondo, ci accorgiamo che la morte rappresenta proprio il suo filo conduttore. E questo, secondo la Tamaro, perché la morte è il più grande tabù dei nostri giorni. Se guardiamo le cose da un punto di vista antropologico,ci accorgiamo che si vive come se la morte fosse radicalmente bandita. Una sorta di alienazione collettiva tipica di questo mondo capitalista, globalizzato, solipsista, relativista permea il sociale : i più forti si ubriacano con la rincorsa al potere, alla fama, al successo, i più deboli con alcool e droghe di ogni genere. Secondo la Tamaro, invece, se non si affronta il grande mistero della morte non appare praticabile alcun percorso spirituale. “Nessuna indagine, nessuna interrogazione profonda - ha affermato con forza in più di una circostanza - può sussistere senza un’attenta indagine di finitezza”!
Saranno necessari anni di isolamento e di errori perché Matteo, ripeto, tra solitudine e scelte folli , deserti impraticabili e silenzi interminabili si rimpadronisca di se stesso e di tutto ciò che gli è rimasto e che continua a vivere intorno a lui: il padre Guido, il lavoro da medico, il suo piccolo rifugio in montagna, gli amici, l’ergoterapia, lo “sprofondamento “ tra le cose del creato; tutte risorse che, pian piano, ridoneranno senso al suo quotidiano.
Matteo vincerà la sua crisi quando, dal pensiero solitario, ricomincerà a percepire la speranza e a capire che adesso è necessario uscire dalla chiusura in se stesso che lo aveva blindato nel suo ego, per tornare a credere che l’uomo, nel senso più alto, si realizza solo attraverso la relazione e che l’amore rappresenta la via per il compimento di tale traguardo.
Anche il papà di Matteo, Guido è una figura portante del romanzo. Forse ne rappresenta proprio il fulcro forse perché nel pensiero dell’autrice c’era l’idea di restituire forza e dignità alla figura maschile che vive una crisi odierna senza pari.
Guido, cieco e solo apparentemente debole, morirà lasciando una commovente lettera al figlio quale preziosissimo testamento spirituale. Anche questo dettaglio procurerà in Matteo una sorta di spinta a rinascere dal fondo perché sarà il momento della presa di coscienza di “un amore unico e speciale – sostiene la Tamaro - che accoglie, che genera e continua a generare chi si è generato, di un riscatto, di una vera trasfigurazione.
“Per sempre” è un capolavoro dell’amore in un vivere cristiano, è una storia intessuta con la forza di chi crede, come la Tamaro, in valori che sono eterni, è un romanzo che tocca credenti e non perché, ripeto, tutti vorrebbero amare “per sempre”!
Ma è anche un monito per le coppie moderne che si stancano troppo presto di amare, per tutti coloro che hanno paura di amare, e viene a ricordarci che, chi ama deve necessariamente compromettersi.
“Per sempre”, infine, è anche la storia di una tragedia che si compie, di uno sprofondamento disperato del protagonista che, però, sottende un capovolgimento di prospettiva, un impercettibile squarcio di luce che si fa sempre più tangibile e che lascia trapelare che esiste una ineluttabile speranza rivoluzionaria: dentro ogni uomo vive una scintilla divina che, puntualmente, riemerge.
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