La fede cristiana nelle forme dell'arte
di Giuseppe C.M. Cassaro, S.D.B.
Professore di Teologia Dogmatica
e Vice Preside dell’Istituto Teologico S. Tommaso di Messina
ROMA, martedì, 14 febbraio 2012 (ZENIT.org).
Nell’arte è custodita un’allusione al divino e al paradiso: è questa una stupenda intuizione che N.V. Gogol espresse nel suo racconto Il ritratto del 1835, ma è questo anche uno dei tanti comuni e banali asserti che si ripetono, forse per assuefazione accademica o con ironica accondiscendenza. Si dimentica così che l’arte come scintilla del divino è una conquista della visione biblica della realtà: laddove la prospettiva del pensiero antico riconosceva nella bellezza una qualità dell’essere, la rivelazione biblica scopre un gesto personale di Dio creatore, che con gusto artistico dissemina nel cosmo le sue vestigia.
Atanasio, con sguardo estatico, vede nel mondo creato l’impronta della sapienza divina: «Ma se il mondo è stato organizzato con sapienza e conoscenza ed è stato riempito di ogni bellezza [διακεκόσμαται], allora si deve dire che il creatore e l’artista [διακοσμήσαντα] è il Verbo di Dio» (Oratio contra gentes, 40, in: PG, 25, 79-80D). Dio come artista precede ogni artista umano, che con i suoi strumenti aggiunge una pennellata di bellezza a questo mondo splendido, in cui la Sapienza ama trastullarsi accanto ai figli degli uomini (cfr. Sir 24,3-11; Gv 1,3.14).
Un’interessante dibattito si è innescato recentemente a partire da questi argomenti a proposito del nuovo Fonte battesimale, creato dall’Architetto e Designer Alberto Cicerone sotto la guida del Teologo Don Salvatore Vitiello per le celebrazioni nella Cappella Sistina. Ci si chiede infatti se l’arte sia capace non solo di rimandare genericamente al divino, ma possa in verità servire la fede della Chiesa nella sua vita liturgica.
Sembra superfluo ricordare che la produzione artistica si fa segno autentico del divino non per un suo vuoto sforzo di teoresi, ma nella misura in cui essa riesce a parlare di Dio, e in questi termini offre già un servizio ottimo al cammino di fede dell’uomo. Ma c’è da aggiungere che il ministero dell’arte non è affatto una soggezione che ne svilisce l’originalità, né la Chiesa si arroga un’autorità che definisca canoni e modalità espressive: al contrario «la Santa Madre Chiesa è stata sempre amica delle arti liberali ed ha sempre ricercato il loro nobile servizio» (Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 122).
Questa amicizia, che si potrebbe a buon diritto definire alleanza, ha come obiettivo eccellente un servizio a Dio e all’uomo, in una felice circolarità che non sminuisce nessun autentico valore umano, esaltando al contrario tutto ciò che di bello e di buono l’uomo è in grado di produrre, nel solco di quella creatività che tanto lo avvicina al Creatore-artista. Non esiste infatti niente di «genuinamente umano che non trovi eco nel cuore» dei discepoli di Cristo (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 1): così ogni valore artistico di cui l’uomo è capace è di per se stesso una scintilla di vangelo, e per questo motivo appartiene anche all’indole del cristiano.
Il nuovo Fonte Battesimale è espressione artistica del nostro tempo e prodotto di uno sforzo di riflessione sullo spazio legittimo tra arte e liturgia operato nel Master in Architettura, Arti Sacre e Liturgia presso l’Università Europea di Roma e l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.
La forma innovativa non ha un riscontro nell’iconografia storica del fonte cristiano, ma si presenta come un segno gravido di rimandi biblici e liturgici e capace di parlare anche all’uomo di oggi, che in gran parte ha perduto i codici simbolici cristiani, ma sa ancora decriptare un messaggio iconografico che parli il linguaggio dei segni naturali.
La struttura è molto semplice, costituita da tre elementi, che finemente lavorati definiscono una composizione che attrae lo sguardo. La pietra calcarea funge da base alla struttura: essa è solcata da profonde incisioni, le quali tuttavia non richiamano la mano dell’uomo che lavora la roccia, ma l’azione del tempo, che modella le forme naturali in anatomie che parlano di storia eterna.
Nella pietra affonda le radici il bronzo dell’albero che la sovrasta: è un olivo giovane, ma già segnato da un suo percorso di vita che disegna il fusto contorto e slanciato verso l’alto, dove le ricche fronde, sempre verdi e abbondanti esprimono l’esuberanza dell’energia vitale che lo percorre, e dove sono nascosti ventiquattro frutti, che fanno corona alla sfera che si trova nel cuore della chioma. Viene da chiedersi se la rilucente sfera sia adagiata sui rami dell’olivo, oppure sorga proprio da quel tronco attorcigliato: la simbologia solare è tuttavia evidente, e risplende nella luce dell’oro di cui è rifinita. La sfera è cava, e si apre a metà, lasciando scoprire al suo interno l’alveo dell’acqua rigeneratrice del battesimo.
Cristo, sole nascente dall’alto (Lc 1,78; cfr. Liturgia delle Ore, Invocazioni alle Lodi mattutine della II domenica del salterio) siede in trono sull’albero della vita. In lui luce del mondo (Gv 8,12) sono immersi gli uomini per essere illuminati (Ef 5,14) e rinascere dall’alto (Gv 3,3.7), e diventare a loro volta luce (Mt 5,14; Gdc 5,31) in questo mondo immerso nelle tenebre, che attende un raggio di speranza.
Cristo è ad un tempo il volto di Dio e il volto dell’uomo su cui risplende la bellezza e la potenza del sole (Ap 1,16): avvicinarsi a lui, entrare nella fonte che lui apre nel proprio costato, equivale ad entrare nella sua orbita e lasciarsi trasformare dalla sua forza divina in un’umanità nuova, capace di contenere, senza rimanerne schiacciata, tutta la pienezza di Dio (cfr. Es 33,23; Gdc 13,22). Di questo sole è rivestita Maria (Ap 12,1), prima e perfettamente redenta, donna trasformata dalla grazia, madre di tutti i viventi che da quel sole attingono la loro energia vitale; di questo sole si veste anche la Chiesa (Ap 12,1; 22,5), splendente della luce del suo Signore (Preconio pasquale).
Israele, nella vitalità che la misericordia di Dio gli dona, sanandolo dalle sue infedeltà, possiede la bellezza dell’olivo verdeggiante (Os 14,7), e fonda la propria giustizia solo nella fedeltà di Dio alle sue promesse (Sal 52[53],10), nel suo affetto e nel suo cuore paterno che non dimentica l’alleanza di pace.
Questo olivo è il popolo che Dio si è scelto, la radice santa su cui sono innestate tutte le genti per mezzo della fede (Rm 11,11-24), ma solo in virtù della linfa vitale che gli deriva dalla radice vera dell’albero di vita che è Cristo stesso (Ap 22,16; Is 11,10; Gv 15,4-5). Egli è la radice cresciuta in terra arida (Is 53,2), nata sulla roccia senza vita della nostra umanità perduta. In virtù dell’offerta che il Figlio fa di se stesso sulla croce sgorga il fiume vivificante, sulle cui sponde crescono gli alberi sempre verdi e ricchi di frutti (Ez 47,1-12; Ap 22,1-2). Egli è ancora il nuovo albero della vita, che viene restituito ad Adamo dopo la riconciliazione (Ap 2,7; 22,14): nel legno della sua croce rifiorisce la vita che il peccato aveva spento.
Dio stesso è la roccia sicura, difesa e gloria del suo popolo (Dt 32,4; 1Sam 2,2; Sal 18[19],3; 31[32],3; Is 26,4), una roccia viva che genera Israele (Dt 32,18), e che si spacca, si apre per far scaturire acqua di vita (Es 17,6; Ger 2,13; Gv 4,10). I discepoli di Gesù riconoscono che egli era la roccia che nel deserto dissetò Israele (1Cor 10,4), quella roccia spirituale che ancora oggi continua ad aprirsi per donare l’acqua viva dello Spirito, anzi per far sgorgare le sorgenti di quest’acqua nel cuore degli stessi credenti (Gv 7,38), che battezzati in lui, diventano per mezzo di lui tempio dello Spirito di Dio (Ez 36,26).
Cristo è la piccola pietra che solo in apparenza è insignificante (Dn 2,34-35), una pietruzza che “si stacca dall’alto”, senza intervento di mano d’uomo: è Dio stesso che la invia per l’uomo, per poter ricostruire tutto secondo il progetto di Dio (Mt 21,42; At 4,11; Ef 2,20): i costruttori infatti l’hanno scartata, ma Dio vuole che diventi basamento di costruzione per la casa nuova dell’umanità nuova, contro la quale nessun attacco potrà portare distruzione (Mt 7,24-25). In lui anche i discepoli sono resi pietre vive, per la costruzione del tempio santo dove Dio desidera abitare in mezzo agli uomini (1Pt 2,4-5).
Questo breve e sintetico excursus che analizza la simbologia artistica in riferimento a quella biblica mostra come il messaggio sotteso dal linguaggio del Fonte battesimale utilizzato nella Cappella Sistina è duplice: ci parla di Dio e dell’uomo, parte sempre dal creatore per giungere alla creatura umana.
Ci dice come la realtà dell’Incarnazione e della Pasqua di Cristo non sia una semplice rivelazione di qualcosa di misterioso, ma una rivelazione misterica, invita cioè gli uomini a entrare dentro il mistero, a prendere parte da protagonisti alla storia della salvezza. In quel fonte comincia una vita nuova, che non avrà fine, e che segnerà per sempre la comunione tra Dio e l’uomo, in un’alleanza sponsale che nessuna forza potrà mai spezzare. Attraverso quel grembo la creatura umana accede nell’intimità di Dio e diventa come lui, partecipando al suo dono di vita, assumendo in sé il suo essere, e transumanando.
Il fonte trova collocazione nell’ambito delle celebrazioni che si svolgono nella Cappella Sistina, che con la sua sinfonia di affreschi fa da sottofondo alla liturgia celebrata dal Santo Padre. Se non si dà una corrispondenza sincronica o puntuale della triplice simbologia nel contesto iconografico della Cappella, molti rimandi allusivi ci consentono di trovare una sorprendente consonanza che illumina il linguaggio artistico.
Se alcuni particolari della creazione di Eva e del peccato originale, che si trovano nella volta, ci possono mettere sulle tracce dell’albero della vita secondo un’interpretazione tutta michelangiolesca, tuttavia è la simbologia solare che risalta immediatamente, ed anzi è la più evidente per la sua collocazione proprio sopra lo spazio celebrativo dell’altare: Cristo possente, attorno al quale, nel giudizio universale, si muovono tutti gli altri personaggi. È lui il centro della storia, quel sole di giustizia che sorge dall’alto, e che Michelangelo ha rappresentato nella sua aurora definitiva, la luce dorata che lo incornicia alle spalle, e che abbraccia anche Maria seduta alla sua destra.
Ci chiediamo se sia legittima la pretesa di aggiungere una nuova componente artistica in un contesto di così alto valore come la Cappella Sistina. La risposta è ancora una volta banale, ma non per questo meno vera: in momenti diversi della storia ed anche con contributi differenti la Cappella è stata arricchita.
Anche la mano degli artisti del nostro tempo ha diritto a partecipare a questa sinfonia che comprende consonanze e dissonanze di mirabile bellezza: «La Chiesa non ha mai avuto come proprio uno stile artistico, ma, secondo l’indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca, creando, nel corso dei secoli, un tesoro artistico da conservarsi con ogni cura.
Anche l’arte del nostro tempo e di tutti i popoli e paesi abbia nella Chiesa libertà di espressione» (Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 123; cfr. Ordinamento Generale del Messale Romano, 3a ed., 289; Caeremoniale Episcoporum, 37). Nel suo contributo, che per certi versi ha anche il pregio di mantenersi umile, al contesto liturgico e artistico, il fonte parla il linguaggio della fede, quello della bellezza comprensibile e ricca di dignità, e con la sua originalità, concorre alla composizione del momento celebrativo senza sminuire, anzi esaltandola attraverso i riflessi, lo spessore della simbologia tradizionale che gli sta intorno.
Pare proprio che teologia ed arte possano tornare a dialogare.
lunedì 20 febbraio 2012
venerdì 10 febbraio 2012
J.S. BACH/ "Vieni dolce morte", una riflessione sulla Cantata 161
Vieni, dolce morte, vieni , riposo benedetto!
Vieni, conducimi nella pace,
perché io sono stanco
di questo mondo!
Vieni, ti attendo.
…I miei occhi sono già chiusi.
Per ben cinque volte ritorna il primo verso citato dall’aria “Komm süsser Tod” di J.S. Bach (BWV 478). E per altre cinque volte ricorre l‘emistichio “vieni, benedetto riposo”.
Dieci volte la stessa nota, dieci volte un invocativo che chiama con il tu la morte stessa, come la si chiama nella Cantata 161: “Vieni Tu, dolce ora della morte”.
La morte dunque è un’ora, l’ora dell’addio al mondo, divenuto troppo angusto, angosciato dalle sue stesse tenebre precludenti lo spazio infinito e pieno di stelle e della luce del sole che l’anima desidera. Uno spazio pieno di angeli, un firmamento di zaffiro splendente nella luce di Cristo (Schwarzen Welt… Blaue Sternenzelt).
L’ora dell’incontro definitivo con Cristo: “Ora voglio vederti, o Gesù (Ich will nun Jesum sehen).
Vederti: è la visione beatifica, che rende beati come il beato (selge) riposo. Là, dove quell’invocazione al selge Ruh, appunto “beato riposo” (e in Tedesco è di genere femminile, come i nomi di molte cose grandi ) indica l’acquietarsi della creazione nel suo compimento, quasi nuovo sonno di Adamo nell’attesa del farsi nuovo di tutte le cose.
È un restare, un riposare; stare su di sé che equivale all’approfondimento di sé: è scendere in sé. Non come stasi e immobilità del cadavere, ma come un “transumanarsi” (si licet…) entrare nella trasfigurazione definitiva.
È, questo riposo, un sempre e nuovo essere creati nelle dimensioni di un nuovo respiro, quello che era all’inizio del tempo e anelava al compimento in Cristo della creazione stessa.
Il riposo è risalire (come – anche – uno scendere) allo stato di beatitudine; è il pulsare del cuore dell’uomo che attinge e si immerge nel Cuore del mondo, così da creare un tessuto in cui tutti i cuori si partecipano, senza smarrire il proprio sigillo di unicità. Non è un perdersi in un panteismo impersonale, un naufragar dolce nel mare dell’oblio come volevano i vertici della saggezza antica: pensiamo allo stoicismo di Cleante di Asso che sentiva Dio come padre, ma non poteva salvare dall’ indeterminazione di un impianto meccanicistico la nostra anima intrisa di materia. Non è possibile cancellarsi. Anche chi, oggi, volesse disperdere le proprie ceneri nello spazio, gettandole da una navetta spaziale, non potrebbe togliere il fatto di essere stato accettato (acceptus, conceptus in sinu matris) nell’ esserci dell’ esistente: vanamente vorremmo nientificarci. “Siamo imbarcati” direbbe Pascal… Dunque la morte è una tappa dell’ essere stesso?
Oppure il morire è puro dissolversi, è cioè vuoto apparire mentre il soggetto che muore non c’è più come pensavano gli altri materialisti, gli epicurei? Qual è il dramma del perder la propria vita invocandone la resurrezione dopo i tre giorni del sepolcro se non la speranza di esser risparmiati dai flutti e riuscir” a riveder le stelle”? E’ veramente la fine la nostra morte? Questo reale non-esser più dell’ essere particolare che siamo è un no definitivo di questa meravigliosa vita alla meravigliosa vita? Con il nulla come risultato?
L’anima cristiana del XVIII secolo che scrive i versi di “Vieni, Dolce morte” – il testo, anteriore al 1736, è di anonimo – e che li inserisce in questo canto, come attinge queste profondità teologiche? Vi arriva perché così sente. Potremo citare qui un grande interprete di Bach, Philipp Harnoncourt, il quale avverte noi, esseri positivi verificazionisti, che “Di ciò di cui non si può parlare, si può, anzi si deve, cantare e far musica, se non si può tacere”.
Sì, l’ anima (ed è bene che riprendiamo a parlare di anima ) sente che la morte è un’ora, un’ora che Cristo ha trasfigurato in un’ora bella, perché passando in quella, si giunge a vedere “il più bello tra i figli degli uomini”.
Sorprendentemente già Platone aveva scritto che “la potenza del Bene si è rifugiata nel Bello”. La morte è l’ approdo al trionfo del Bello, pur in tutto il contrasto angoscioso delle tenebre piene di lacrime e lamenti che sgorgano dal dolore umano che ci avvolge come una stanza delle torture (Marterkammer).
Nel mondo bizantino, sia slavo sia greco, il Crocifisso è visto già nella luce: la luce della resurrezione; da noi (pensiamo a Giotto, al Lorenzetti, all’ Angelico..) vi si scorge la letizia finale del “ Consummatum est”. Il Salvatore svela un arcano sorriso nell’abbraccio finale delle sue braccia confitto al legno amarissimo. Ma nel mondo nordico, tedesco e sofferente dell’angoscia della propria salvezza, spesso l’abbandono e la nudità del Crocifisso è soverchiante (Mein Gott, Mein Gott, warum hast Du mich verlassen?): pensiamo ai fiamminghi, a Gruenewald.
È invece nella musica delle cantate di Bach, dove il tema è proprio il morire, che il mondo tedesco, e in genere il Nord Europa, sente la definitività che si avvicina. Il Grande di Eisenach trattò più volte questo tema, e perciò non giunse impreparato alla morte (Cantate n. 8; 32; 53; 56; 82; 106; 114; 156; 161, 162). Nella Passione secondo Secondo Matteo noi deponiamo Gesù nel sepolcro e ci sediamo ai bordi della pietra dicendo al tramonto del giorno, quel giorno: “Buonanotte, mio Gesù. Mio Gesù: buonanotte”, in un canto straordinariamente sereno.
È, infatti nella musica, con la parola fatta canto partecipato e commosso, che nelle cantate di Bach, come nelle arie e nei corali e nelle Passioni, l’ anima tedesca riafferma l’ortodossia cattolica come grande nostalgia: la musica può in qualche modo superare la lettera della teologia che ci ha così diviso. La parola elevandosi in canto ridiventa ricca, fiorisce con un accento nuovo (accento: ad cantus). La morte è così percepita in tutta la verità del simbolo apostolico e nel giudizio misericordioso di Dio che abbraccia fede e opere del cristiano. E’ una nostalgia che porterà sia Bach, sia Beethoven a scrivere, come fra le loro più care opere la Messa in si minore e la Missa Solemnis. Nel capolavoro del maestro di Bonn, il Credo è come un tempio posato su quattro note centrali che incrociano le due sillabe “cre-do” quasi pilastri di reminiscenza gregoriana.
Si perdoni a chi scrive questa insistenza sull’ animo tedesco o sul senso trasfigurante della Liturgia bizantino-slava (tutti i mesi partecipa alla Divina Liturgia bizantino-slava): è vero però che tutti viviamo di desiderio di una salvezza di questa Europa così trafitta dal Novecento e così evidentemente chiamata a ritornare alle sue origini di realtà fiorita sulle quattro radici : greca, latina, ebraica e cristiana .Il “credo” di Beethoven? Potrebbe essere una tesi da affrontare!
La musica penetra la nostra carne e le nostre ossa: biblicamente le ossa sono come l’ anima: non si dissolvono ma si pietrificano come segno dell’ attesa che su esse tornino i tendini e i muscoli e la pelle (visione di Ezechiele). La musica è come un anticipo di questa realtà finale: sulla musica pietrificata delle nostre ossa sepolte comincia già ad elevarsi la sinfonia di archi e volte e guglie dell’ ultima e definitiva cattedrale. La dimora di Dio con gli uomini che canta essa stessa quale “musica pietrificata”.
Morire è dunque questo dolce passare nel definitivo che vedrà una nuova carne e un mondo infinitamente più bello e grande di questo che pure vede la bellezza del nascere: (del presepe, dell’ adorare beato di Maria, dello stupore sgomento dei piccoli e dell’ inchinarsi dei potenti. Per questo il canto, segnatamente quello di Bach che sembra non terminare mai, riprendendo e variando le stesse intuizioni fino ad esaurirsi (la tavolozza è quella novella delle 24 tonalità da lui stesso temperata) è come un andare da inizio in inizio. Ogni festa una cantata nuova: ne abbiamo più di duecento, ma erano molte di più… E così la liturgia trascorre l’ anno: l' Avvento, il Natale, il Mattino di Pasqua accompagnato dalla processione feriale dei salmi che tengono come in filigrana il lavorare, il gioire della nuzialità e delle feste, il patire e il morire dell’uomo. L’anima della musica è questo canto nuziale, questa musica dell’anima che entra e prende possesso del cuore, fino a ristorare in modo benefico e terapeutico la persona umana.
Mi si permetta qui un ricordo personale. Molti anni fa insegnavo a Mombello: nei locali recuperati dall’ospedale psichiatrico, che peraltro aveva ancora alcuni reparti funzionanti. Ricordo, nella bellissima chiesa cara al Card. Ildefonso Schuster, la “Messa dei pazzi” (come la dicevo fra me senza nominarla).
Queste persone, che vivevano in altri mondi, con così evidenti minorazioni, durante la messa erano attentissime: chi in ginocchio, chi balbettando una preghiera, chi cantando, appunto. Era uno spettacolo commovente e vero. Il tribunale della ragione è il sacrificio di Cristo, dove povero o ricco, sano o malato, piccolo o potente l’ uomo accetta che gli angeli scendano sull’ altare della nostra passione. La Sua passione. La morte fa parte della liturgia, è dunque anch’ essa un canto: Vieni, dolce morte…
Che cos'ha a che fare tutto quello che veniamo dicendo con la “Dolce Morte”, l‘eutanasia? Perché l’ Europa (non solo essa) vuole cantare in astratto la morte? Perché decidere senza Cristo il morire che è per sempre offerta di Cristo al Padre?
Perché pretendere che i bambini possano decidere e firmare questo? (vi sono leggi che fissano questa possibilità ai dodici anni, ciò che sembra sferzare l’ episodio di Gesù dodicenne..)?
Alcuni giorni orsono ho ritrovato un vecchio disco di vinile con incise bellissime opere di Bach. Una in particolare mi colpiva: una trascrizione fatta da Virgil Fox, illustre organista, e da lui stesso eseguita: ” Vieni dolce morte”. Ampio il procedere iniziale, povero e generoso e vieppiù intrecciato di lirismi e spunti nuovi; poi fiume impetuoso in un “forte” sempre più “forte”.
”Parole tornanti e ritornanti: ma non parole perché la trascrizione è per organo solo: echi e meta-, che viene in soccorso parole, invocazioni e grido finale: finale consegna di sé echeggiante l’ indicibile grido del Crocifisso. Eppure gioia.
Chi scrive ha fatto ricerche ma non ha ancora rintracciato lo spartito e ne sarebbe grato a chi ne avesse la pazienza di cercarlo e l’abilità di trovarlo.
Febbraio 2012
Nell’anniversario di Eluana.
Eluana: colei che porta aiuto…che viene in soccorso…
Vieni, dolce morte. Testo di anonimo, anno 1724, aria di J.S.Bach. BWV 478
Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto,
vieni, conducimi alla pace
perché sono stanco di questo mondo.
Oh vieni, ti aspetto.
Vieni subito ed accompagnami:
chiudimi gli occhi
Vieni, riposo benedetto.
Vieni, dolce morte, vini, riposo benedetto.
Più bello essere in cielo,
là ogni gioia è più grande.
Per questo ad ogni ora
sono pronto a pronunciare il mio saluto.
I miei occhi si chiudono.
Vieni, riposo benedetto.
Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto.
O mondo, luogo di supplizi,
rimani lì con i tuoi lamenti straziati;
da questo mondo di dolori
io anelo al Cielo
la morte mi porterà là
Vieni, riposo benedetto.
Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto,
ciò che pur son stato
ora è tra le schiere degli angeli:
via da questo oscuro mondo
su, verso l’azzurro cielo stellato
su fino al Paradiso
o grazioso riposo!
Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto,
ora voglio vedere Gesù e stare fra gli angeli.
Tutto è ormai compiuto.
E così: buona notte a te o mondo
I miei occhi già si chiudono.
Vieni benedetto riposo.
(trad. it. Lorenzo Fornasieri)
di Lorenzo Fornasieri
da Il Sussidiario.net
Vieni, conducimi nella pace,
perché io sono stanco
di questo mondo!
Vieni, ti attendo.
…I miei occhi sono già chiusi.
Per ben cinque volte ritorna il primo verso citato dall’aria “Komm süsser Tod” di J.S. Bach (BWV 478). E per altre cinque volte ricorre l‘emistichio “vieni, benedetto riposo”.
Dieci volte la stessa nota, dieci volte un invocativo che chiama con il tu la morte stessa, come la si chiama nella Cantata 161: “Vieni Tu, dolce ora della morte”.
La morte dunque è un’ora, l’ora dell’addio al mondo, divenuto troppo angusto, angosciato dalle sue stesse tenebre precludenti lo spazio infinito e pieno di stelle e della luce del sole che l’anima desidera. Uno spazio pieno di angeli, un firmamento di zaffiro splendente nella luce di Cristo (Schwarzen Welt… Blaue Sternenzelt).
L’ora dell’incontro definitivo con Cristo: “Ora voglio vederti, o Gesù (Ich will nun Jesum sehen).
Vederti: è la visione beatifica, che rende beati come il beato (selge) riposo. Là, dove quell’invocazione al selge Ruh, appunto “beato riposo” (e in Tedesco è di genere femminile, come i nomi di molte cose grandi ) indica l’acquietarsi della creazione nel suo compimento, quasi nuovo sonno di Adamo nell’attesa del farsi nuovo di tutte le cose.
È un restare, un riposare; stare su di sé che equivale all’approfondimento di sé: è scendere in sé. Non come stasi e immobilità del cadavere, ma come un “transumanarsi” (si licet…) entrare nella trasfigurazione definitiva.
È, questo riposo, un sempre e nuovo essere creati nelle dimensioni di un nuovo respiro, quello che era all’inizio del tempo e anelava al compimento in Cristo della creazione stessa.
Il riposo è risalire (come – anche – uno scendere) allo stato di beatitudine; è il pulsare del cuore dell’uomo che attinge e si immerge nel Cuore del mondo, così da creare un tessuto in cui tutti i cuori si partecipano, senza smarrire il proprio sigillo di unicità. Non è un perdersi in un panteismo impersonale, un naufragar dolce nel mare dell’oblio come volevano i vertici della saggezza antica: pensiamo allo stoicismo di Cleante di Asso che sentiva Dio come padre, ma non poteva salvare dall’ indeterminazione di un impianto meccanicistico la nostra anima intrisa di materia. Non è possibile cancellarsi. Anche chi, oggi, volesse disperdere le proprie ceneri nello spazio, gettandole da una navetta spaziale, non potrebbe togliere il fatto di essere stato accettato (acceptus, conceptus in sinu matris) nell’ esserci dell’ esistente: vanamente vorremmo nientificarci. “Siamo imbarcati” direbbe Pascal… Dunque la morte è una tappa dell’ essere stesso?
Oppure il morire è puro dissolversi, è cioè vuoto apparire mentre il soggetto che muore non c’è più come pensavano gli altri materialisti, gli epicurei? Qual è il dramma del perder la propria vita invocandone la resurrezione dopo i tre giorni del sepolcro se non la speranza di esser risparmiati dai flutti e riuscir” a riveder le stelle”? E’ veramente la fine la nostra morte? Questo reale non-esser più dell’ essere particolare che siamo è un no definitivo di questa meravigliosa vita alla meravigliosa vita? Con il nulla come risultato?
L’anima cristiana del XVIII secolo che scrive i versi di “Vieni, Dolce morte” – il testo, anteriore al 1736, è di anonimo – e che li inserisce in questo canto, come attinge queste profondità teologiche? Vi arriva perché così sente. Potremo citare qui un grande interprete di Bach, Philipp Harnoncourt, il quale avverte noi, esseri positivi verificazionisti, che “Di ciò di cui non si può parlare, si può, anzi si deve, cantare e far musica, se non si può tacere”.
Sì, l’ anima (ed è bene che riprendiamo a parlare di anima ) sente che la morte è un’ora, un’ora che Cristo ha trasfigurato in un’ora bella, perché passando in quella, si giunge a vedere “il più bello tra i figli degli uomini”.
Sorprendentemente già Platone aveva scritto che “la potenza del Bene si è rifugiata nel Bello”. La morte è l’ approdo al trionfo del Bello, pur in tutto il contrasto angoscioso delle tenebre piene di lacrime e lamenti che sgorgano dal dolore umano che ci avvolge come una stanza delle torture (Marterkammer).
Nel mondo bizantino, sia slavo sia greco, il Crocifisso è visto già nella luce: la luce della resurrezione; da noi (pensiamo a Giotto, al Lorenzetti, all’ Angelico..) vi si scorge la letizia finale del “ Consummatum est”. Il Salvatore svela un arcano sorriso nell’abbraccio finale delle sue braccia confitto al legno amarissimo. Ma nel mondo nordico, tedesco e sofferente dell’angoscia della propria salvezza, spesso l’abbandono e la nudità del Crocifisso è soverchiante (Mein Gott, Mein Gott, warum hast Du mich verlassen?): pensiamo ai fiamminghi, a Gruenewald.
È invece nella musica delle cantate di Bach, dove il tema è proprio il morire, che il mondo tedesco, e in genere il Nord Europa, sente la definitività che si avvicina. Il Grande di Eisenach trattò più volte questo tema, e perciò non giunse impreparato alla morte (Cantate n. 8; 32; 53; 56; 82; 106; 114; 156; 161, 162). Nella Passione secondo Secondo Matteo noi deponiamo Gesù nel sepolcro e ci sediamo ai bordi della pietra dicendo al tramonto del giorno, quel giorno: “Buonanotte, mio Gesù. Mio Gesù: buonanotte”, in un canto straordinariamente sereno.
È, infatti nella musica, con la parola fatta canto partecipato e commosso, che nelle cantate di Bach, come nelle arie e nei corali e nelle Passioni, l’ anima tedesca riafferma l’ortodossia cattolica come grande nostalgia: la musica può in qualche modo superare la lettera della teologia che ci ha così diviso. La parola elevandosi in canto ridiventa ricca, fiorisce con un accento nuovo (accento: ad cantus). La morte è così percepita in tutta la verità del simbolo apostolico e nel giudizio misericordioso di Dio che abbraccia fede e opere del cristiano. E’ una nostalgia che porterà sia Bach, sia Beethoven a scrivere, come fra le loro più care opere la Messa in si minore e la Missa Solemnis. Nel capolavoro del maestro di Bonn, il Credo è come un tempio posato su quattro note centrali che incrociano le due sillabe “cre-do” quasi pilastri di reminiscenza gregoriana.
Si perdoni a chi scrive questa insistenza sull’ animo tedesco o sul senso trasfigurante della Liturgia bizantino-slava (tutti i mesi partecipa alla Divina Liturgia bizantino-slava): è vero però che tutti viviamo di desiderio di una salvezza di questa Europa così trafitta dal Novecento e così evidentemente chiamata a ritornare alle sue origini di realtà fiorita sulle quattro radici : greca, latina, ebraica e cristiana .Il “credo” di Beethoven? Potrebbe essere una tesi da affrontare!
La musica penetra la nostra carne e le nostre ossa: biblicamente le ossa sono come l’ anima: non si dissolvono ma si pietrificano come segno dell’ attesa che su esse tornino i tendini e i muscoli e la pelle (visione di Ezechiele). La musica è come un anticipo di questa realtà finale: sulla musica pietrificata delle nostre ossa sepolte comincia già ad elevarsi la sinfonia di archi e volte e guglie dell’ ultima e definitiva cattedrale. La dimora di Dio con gli uomini che canta essa stessa quale “musica pietrificata”.
Morire è dunque questo dolce passare nel definitivo che vedrà una nuova carne e un mondo infinitamente più bello e grande di questo che pure vede la bellezza del nascere: (del presepe, dell’ adorare beato di Maria, dello stupore sgomento dei piccoli e dell’ inchinarsi dei potenti. Per questo il canto, segnatamente quello di Bach che sembra non terminare mai, riprendendo e variando le stesse intuizioni fino ad esaurirsi (la tavolozza è quella novella delle 24 tonalità da lui stesso temperata) è come un andare da inizio in inizio. Ogni festa una cantata nuova: ne abbiamo più di duecento, ma erano molte di più… E così la liturgia trascorre l’ anno: l' Avvento, il Natale, il Mattino di Pasqua accompagnato dalla processione feriale dei salmi che tengono come in filigrana il lavorare, il gioire della nuzialità e delle feste, il patire e il morire dell’uomo. L’anima della musica è questo canto nuziale, questa musica dell’anima che entra e prende possesso del cuore, fino a ristorare in modo benefico e terapeutico la persona umana.
Mi si permetta qui un ricordo personale. Molti anni fa insegnavo a Mombello: nei locali recuperati dall’ospedale psichiatrico, che peraltro aveva ancora alcuni reparti funzionanti. Ricordo, nella bellissima chiesa cara al Card. Ildefonso Schuster, la “Messa dei pazzi” (come la dicevo fra me senza nominarla).
Queste persone, che vivevano in altri mondi, con così evidenti minorazioni, durante la messa erano attentissime: chi in ginocchio, chi balbettando una preghiera, chi cantando, appunto. Era uno spettacolo commovente e vero. Il tribunale della ragione è il sacrificio di Cristo, dove povero o ricco, sano o malato, piccolo o potente l’ uomo accetta che gli angeli scendano sull’ altare della nostra passione. La Sua passione. La morte fa parte della liturgia, è dunque anch’ essa un canto: Vieni, dolce morte…
Che cos'ha a che fare tutto quello che veniamo dicendo con la “Dolce Morte”, l‘eutanasia? Perché l’ Europa (non solo essa) vuole cantare in astratto la morte? Perché decidere senza Cristo il morire che è per sempre offerta di Cristo al Padre?
Perché pretendere che i bambini possano decidere e firmare questo? (vi sono leggi che fissano questa possibilità ai dodici anni, ciò che sembra sferzare l’ episodio di Gesù dodicenne..)?
Alcuni giorni orsono ho ritrovato un vecchio disco di vinile con incise bellissime opere di Bach. Una in particolare mi colpiva: una trascrizione fatta da Virgil Fox, illustre organista, e da lui stesso eseguita: ” Vieni dolce morte”. Ampio il procedere iniziale, povero e generoso e vieppiù intrecciato di lirismi e spunti nuovi; poi fiume impetuoso in un “forte” sempre più “forte”.
”Parole tornanti e ritornanti: ma non parole perché la trascrizione è per organo solo: echi e meta-, che viene in soccorso parole, invocazioni e grido finale: finale consegna di sé echeggiante l’ indicibile grido del Crocifisso. Eppure gioia.
Chi scrive ha fatto ricerche ma non ha ancora rintracciato lo spartito e ne sarebbe grato a chi ne avesse la pazienza di cercarlo e l’abilità di trovarlo.
Febbraio 2012
Nell’anniversario di Eluana.
Eluana: colei che porta aiuto…che viene in soccorso…
Vieni, dolce morte. Testo di anonimo, anno 1724, aria di J.S.Bach. BWV 478
Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto,
vieni, conducimi alla pace
perché sono stanco di questo mondo.
Oh vieni, ti aspetto.
Vieni subito ed accompagnami:
chiudimi gli occhi
Vieni, riposo benedetto.
Vieni, dolce morte, vini, riposo benedetto.
Più bello essere in cielo,
là ogni gioia è più grande.
Per questo ad ogni ora
sono pronto a pronunciare il mio saluto.
I miei occhi si chiudono.
Vieni, riposo benedetto.
Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto.
O mondo, luogo di supplizi,
rimani lì con i tuoi lamenti straziati;
da questo mondo di dolori
io anelo al Cielo
la morte mi porterà là
Vieni, riposo benedetto.
Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto,
ciò che pur son stato
ora è tra le schiere degli angeli:
via da questo oscuro mondo
su, verso l’azzurro cielo stellato
su fino al Paradiso
o grazioso riposo!
Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto,
ora voglio vedere Gesù e stare fra gli angeli.
Tutto è ormai compiuto.
E così: buona notte a te o mondo
I miei occhi già si chiudono.
Vieni benedetto riposo.
(trad. it. Lorenzo Fornasieri)
di Lorenzo Fornasieri
da Il Sussidiario.net
domenica 5 febbraio 2012
Szymborska, come un vino amabile
[da Tracce.it]
di Davide Rondoni
Un vino amabile della poesia contemporanea. Carica di anni e di onori se ne è andata Wislawa Szymborska la poetessa dal nome difficile e dalla poesia apparentemente facile che ha riscosso attenzione in tutto il mondo specie dopo l’assegnazione del Nobel.
La sua voce poetica, attenta a non oltrepassare la soglia di una colloquialità cordiale e complice con il lettore - con un lettore spesso allontanato da inutili strèpiti o da intorbidamenti del linguaggio da taluni sedicenti poeti contemporanei - ha offerto le epifanie di senso di una quotidianità vissuta con attenzione ironica e profonda. Un vino amabile, nel senso di un gesto che non chiede al lettore di essere un “letterato” e di non scomodarsi troppo. Mai il suo trascendere le apparenze “strappa” a un livello veramente inquietante. Si tratta, per così dire, di un primo acquisto, di un risveglio di coscienza. Proprio alla morte, la poetessa aveva dedicato una delle sue poesie ironiche e profonde:
Sulla morte, senza esagerare
Non s'intende di scherzi,
stelle, ponti,
tessitura, miniere, lavoro dei campi,
costruzione di navi e cottura di dolci.
Quando conversiamo del domani
intromette la sua ultima parola
a sproposito.
Non sa fare neppure ciò
che attiene al suo mestiere:
né scavare una fossa,
né mettere insieme una bara,
né rassettare il disordine che lascia.
Occupata ad uccidere,
lo fa in modo maldestro,
senza metodo né abilità.
Come se con ognuno di noi stesse imparando.
Vada per i trionfi,
ma quante disfatte,
colpi a vuoto
e tentativi ripetuti da capo.
A volte le manca la forza
di far cadere una mosca in volo.
Più di un bruco
la batte in velocità.
Tutti quei bulbi, baccelli,
antenne, pinne, trachee,
piumaggi nuziali e pelame invernale
testimoniano i ritardi
del suo svogliato lavoro.
La cattiva volontà non basta
e perfino il nostro aiuto con guerre e rivoluzioni
è, almeno finora, insufficiente.
I cuori battono nelle uova.
Crescono gli scheletri dei neonati.
Dai semi spuntano le prime due foglioline,
e spesso anche grandi alberi all'orizzonte.
Chi ne afferma l'onnipotenza
è lui stesso la prova vivente
che essa onnipotente non è.
Non c'è vita
che almeno per un attimo
non sia immortale.
La morte
è sempre in ritardo di quell'attimo.
Invano scuote la maniglia
d'una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.
Probabilmente in questo mondo distratto da chiacchiere a vanvera e da un profluvio di scrittura poco interessata alle epifanie del vivente e alle profonde inquietudini, la poesia della Szymborska ha avuto il compito di riavvicinare alla voce della poesia tanti che se ne sentivano esclusi o lontani. Lasciando perdere le polemiche che hanno impegnato chi le ha voluto fare i raggi x sulla sua maggiore o minore distanza dai regimi totalitari che hanno tragicamente segnato la vita del suo Paese, resta il fatto che la intelligenza arguta e gentile di questa signora delle lettere è uno dei frutti migliori della tradizione recente della poesia polacca. I fiori più alti e affascinanti di quella storia si danno forse in altre pagine, in altre voci: basti pensare a grandi poeti come Zbigniew Herbert o come Jan Twardoski, pubblicati in Italia da Adelphi e da Marietti. Poeti meno noti, poichè non baciati dalla bocca fortunosa e ambigua delle commissioni Nobel, ma certo più forti e azzardati. E meno “accomodanti” verso la mentalità dominante del nostro tempo. Quella polacca è infatti una delle tradizioni del Novecento più vive, come mostrano anche i più noti Czeslaw Milosz e la stessa opera poetica di grande valore di un ex-operaio diventato molto noto in seguito per aver fatto un altro mestiere, Karol Wojtyla.
di Davide Rondoni
02/02/2012 - Premio Nobel nel 1996, è stata uno dei «frutti
migliori» della tradizione poetica polacca. Ironica e profonda, «ha
riavvicinato ai versi tanti che se ne sentivano esclusi». Strappando
l'apparenza. Come in questa poesia dedicata alla morte...
Wislawa Szymborska è scomparsa l'1 febbraio 2012.
Un vino amabile della poesia contemporanea. Carica di anni e di onori se ne è andata Wislawa Szymborska la poetessa dal nome difficile e dalla poesia apparentemente facile che ha riscosso attenzione in tutto il mondo specie dopo l’assegnazione del Nobel.
La sua voce poetica, attenta a non oltrepassare la soglia di una colloquialità cordiale e complice con il lettore - con un lettore spesso allontanato da inutili strèpiti o da intorbidamenti del linguaggio da taluni sedicenti poeti contemporanei - ha offerto le epifanie di senso di una quotidianità vissuta con attenzione ironica e profonda. Un vino amabile, nel senso di un gesto che non chiede al lettore di essere un “letterato” e di non scomodarsi troppo. Mai il suo trascendere le apparenze “strappa” a un livello veramente inquietante. Si tratta, per così dire, di un primo acquisto, di un risveglio di coscienza. Proprio alla morte, la poetessa aveva dedicato una delle sue poesie ironiche e profonde:
Sulla morte, senza esagerare
Non s'intende di scherzi,
stelle, ponti,
tessitura, miniere, lavoro dei campi,
costruzione di navi e cottura di dolci.
Quando conversiamo del domani
intromette la sua ultima parola
a sproposito.
Non sa fare neppure ciò
che attiene al suo mestiere:
né scavare una fossa,
né mettere insieme una bara,
né rassettare il disordine che lascia.
Occupata ad uccidere,
lo fa in modo maldestro,
senza metodo né abilità.
Come se con ognuno di noi stesse imparando.
Vada per i trionfi,
ma quante disfatte,
colpi a vuoto
e tentativi ripetuti da capo.
A volte le manca la forza
di far cadere una mosca in volo.
Più di un bruco
la batte in velocità.
Tutti quei bulbi, baccelli,
antenne, pinne, trachee,
piumaggi nuziali e pelame invernale
testimoniano i ritardi
del suo svogliato lavoro.
La cattiva volontà non basta
e perfino il nostro aiuto con guerre e rivoluzioni
è, almeno finora, insufficiente.
I cuori battono nelle uova.
Crescono gli scheletri dei neonati.
Dai semi spuntano le prime due foglioline,
e spesso anche grandi alberi all'orizzonte.
Chi ne afferma l'onnipotenza
è lui stesso la prova vivente
che essa onnipotente non è.
Non c'è vita
che almeno per un attimo
non sia immortale.
La morte
è sempre in ritardo di quell'attimo.
Invano scuote la maniglia
d'una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.
Probabilmente in questo mondo distratto da chiacchiere a vanvera e da un profluvio di scrittura poco interessata alle epifanie del vivente e alle profonde inquietudini, la poesia della Szymborska ha avuto il compito di riavvicinare alla voce della poesia tanti che se ne sentivano esclusi o lontani. Lasciando perdere le polemiche che hanno impegnato chi le ha voluto fare i raggi x sulla sua maggiore o minore distanza dai regimi totalitari che hanno tragicamente segnato la vita del suo Paese, resta il fatto che la intelligenza arguta e gentile di questa signora delle lettere è uno dei frutti migliori della tradizione recente della poesia polacca. I fiori più alti e affascinanti di quella storia si danno forse in altre pagine, in altre voci: basti pensare a grandi poeti come Zbigniew Herbert o come Jan Twardoski, pubblicati in Italia da Adelphi e da Marietti. Poeti meno noti, poichè non baciati dalla bocca fortunosa e ambigua delle commissioni Nobel, ma certo più forti e azzardati. E meno “accomodanti” verso la mentalità dominante del nostro tempo. Quella polacca è infatti una delle tradizioni del Novecento più vive, come mostrano anche i più noti Czeslaw Milosz e la stessa opera poetica di grande valore di un ex-operaio diventato molto noto in seguito per aver fatto un altro mestiere, Karol Wojtyla.
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