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sabato 21 agosto 2010

Non è un paese per vecchi (No Country For Old Men)

Mi permetto di pubblicare questa recensione apparsa su Sentieridelcinema.it, un ottimo sito sul cinema, condividendola pienamente. Il film, lo dico en passant, mi ha avvinto, pur lasciando dell'amaro in bocca infatti appare segnato da accenti di autenticità.


2007, Usa, Regia di: Ethan e Joel Coen
Cast principale: Tommy Lee Jones, Josh Brolin, Javier Bardem, Kelly McDonald, Woody Harrelson
Valutazione: Imperdibile

Un cacciatore incappa in un massacro tra corrieri della droga e si impossessa di una borsa piena di soldi. Sulle sue tracce si mette un killer psicopatico e uno sceriffo che cerca di salvargli la vita.
Recensione

È un America spietata e senz’anima quella che McCarthy svela nel suo libro “Non è un paese per vecchi” e portato sullo schermo dai fratelli registi Ethan e Joel Coen. Dovrebbe titolarsi forse, “Non è un paese per nessuno” a sentire le parole dello sceriffo Ed Tom Bell (Tommy Lee Jones), di fronte alla marea montante e irrefrenabile di un crimine disumano e totalmente privo di senso. Mentre scorrono le immagini di un Texas assolato e spoglio, sono le parole fuori campo dello sceriffo le prime che ascoltiamo. Bell ricorda di quando ha arrestato un giovane omicida che sarebbe di lì a poco andato – senza rimorsi -sulla sedia elettrica, e sullo schermo comincia l’impressionante sequenza di delitti di Anton Chigurh, un killer che gira con una pistola ad aria compressa usata nei mattatoi, con la quale senza esitazioni uccide chi gli si para davanti. Chigurh è stato prezzolato per trovare Llewellyn Moss, un uomo che mentre era a caccia si è imbattuto in un massacro tra trafficanti di droga. Moss è un uomo normale; fa il saldatore, ha una moglie, conduce una vita onesta. Ma di fronte a due milioni di dollari abbandonati in un furgone circondato di cadaveri, chi non sarebbe tentato? A tradirlo è un gesto compassionevole: mentre torna sul luogo del massacro per portare acqua all’unico superstite, viene visto. E comincia la caccia.

I fratelli Coen sono la coppia di registi cui molto deve il cinema degli ultimi anni (“Barton Fink”, “Mr. Hoola Hoop”, “L’uomo che non c’era”, “Il grande Lebowski”, “Fratello dove sei”), ma quello che più viene in mente guardando questo film è senza dubbio “Fargo”, un’opera magistrale sul crimine e le sue motivazioni. Confrontarsi con un’opera di McCarthy non è certo una cosa semplice e molti (fuori dell’America, principalmente), hanno visto il film dei Coen come un depauperamento del romanzo dello scrittore, considerato uno dei massimi viventi (di cui si stanno girando le versioni cinematografiche de “La strada” e “Meridiano di sangue”). Nel libro, a far da contraltare alla crudeltà di cui il testo è disseminato, ci sono le parole che lo sceriffo dice alla moglie, ai suoi vice o semplicemente a se stesso, quando osserva con disincanto come la droga e il denaro stiano cancellando ogni forma di umanità, a partire dalle cose che sembrano più semplici e banali. È vero, non tutto è stato riportato nel film, che ha un andamento molto più concitato e compresso, e forse la cosa di cui si sente più la mancanza è la riflessione finale dello sceriffo sul motivo e il significato del lavoro. Ma l’opera dei Coen riesce comunque a mantenere il tono che McCarthy ha impresso alla storia, grazie alla felicissima scelta degli interpreti: Javier Bardem, con un’espressione pietrificata e un’acconciatura incredibile riesce a trasmettere perfettamente l’alienità di Anton Chigurh; Josh Brolin, nei panni di Moss, che si assume la responsabilità della sua irrimediabile scelta; ma soprattutto Tommy Lee Jones è esattamente come il lettore si immagina debba essere lo sceriffo Bell. Asciutto, misurato, ironico, come quando sembra temere più la moglie dei criminali cui dà la caccia. E tragicamente consapevole di quanto sta accadendo: «Tutto comincia quando si inizia a trascurare le buone maniere. Quando non senti più dire “signore” e “signora”, sai che la fine è vicina». “Non è un paese per vecchi” probabilmente non è un film perfetto, ma di certo è uno dei migliori che i Coen abbiano girato e si merita fino in fondo le statuette vinte all’Oscar 2008.

Beppe Musicco

venerdì 13 agosto 2010

CALIGOLA e il dramma del desiderio

di Davide Rondoni

Vent’anni di limature. Fino a riscriverla tre volte. Ad inaugurare la kermesse riminese sarà la pièce su cui Albert Camus ha lavorato tutta la vita. Dove, attraverso il celebre imperatore, dà voce allo struggimento dell’uomo: «Voglio l’impossibile». E provoca ognuno ad una scelta: o far cadere quella domanda, o lasciare che ci renda protagonisti nel teatro dell’esistenza

Ci ha messo vent’anni. E tre versioni. Ci ha lavorato su tutta la vita. Perché Caligola è tutto quel che Albert Camus poteva dire. Che aveva detto altrove, in romanzi ammirevoli. E in altre pièce, saggi, in polemiche. Ma Caligola ha dato corpo e voce a tutte le altre parole. Le ha fatte diventare “uno”, un corpo e un volto. Un personaggio che “fa pensare”, come vien detto sulla scena. Anche se ormai le parole di una famosa scena, «voglio la luna», le canta Emma Morrone - la vincitrice di Amici in testa alle hit parade - e non più i sedicenti rivoluzionari di casa nostra che semmai gridano di volere Santoro in tv o qualcuno in galera. «Voglio l’impossibile», dice una delle battute più celebri del dramma.
La versione iniziale, del 1941, cui qui si fa riferimento, è quella più ricca e pervasa da motivi che poi l’autore, in quella più nota del 1944 (andata in scena nella Francia sotto bombardamenti e dunque letta molto spesso in chiave “politica” anti-hitleriana) e poi nelle successive riedizioni fino alla morte, provvederà ad “asciugare” e a togliere. Per pudore, per stanchezza, per rastremazione stilistica. Ma qui, proprio nella ricchezza e nella esuberanza di questioni, si coglie forse meglio da quali cavità viene il carattere principale del personaggio creato da Camus con il nome del celebre imperatore romano: l’inafferrabilità. Che è come dire il carattere somma di tutti gli altri caratteri. L’inafferrabilità di un uomo che ha deciso - a seguito della perdita di quanto gli dava felicità, ovvero l’amata Drusilla - di essere “logico” con la finitezza e il potere. «Prima di sapere che c’è la morte», dice nelle prime scene Caligola, «tutto mi sembrava credibile. Perfino i loro dèi, le loro speranze, i loro discorsi. Ora non più. Ora non mi rimane altro che questo futile potere di cui tu parli». Il potere massimo, quello dell’imperatore, diviene il luogo di verifica, si potrebbe dire, della possibile libertà dell’uomo. A colui a cui tutto è consentito, è concessa l’esperienza della libertà come soddisfazione? È concessa la luna? Anche se il passato gli aveva concesso la luna, anche se nell’amore per la sua Drusilla ha avuto quella luna tra le braccia, il presente non gliela porta più. E nemmeno il dolore per la perdita è l’ultima parola.
Caligola lo sa bene. Non c’è un’ultima parola, nemmeno nelle esperienze più dure e profonde. Né il dolore, né la viltà, né la crudeltà, e nemmeno la tenerezza dicono l’ultima parola sulla vita, che è perseguitata da una tensione assoluta: «Ecco cosa mi perseguita. Questo andare oltre...», dice come un Ulisse dantesco pieno di amarezza. «Nelle mie notti senza sonno ho incontrato il destino: non puoi immaginare che aria idiota che ha. E monotona...». Questo disvelamento, che atterrisce e al tempo stesso spegne e consegna la vita a una sospensione assurda tra aspirazione e prostrazione.

Come Dante. E infatti Caligola appare ai suoi interlocutori più vicini, agli stessi congiurati, incomprensibile. Ha accettato di essere “logico” con questo disvelamento e con questa alternanza tra struggimento per la tensione alla conquista di qualcosa di “impossibile” e la caduta in una specie di suprema indifferenza per tutto. Perciò sembra giocare con la strage, dando nessuna importanza alla morte che sparge intorno a sé in modo tanto ironico quanto feroce, e sembra disfare ogni fondamento al potere proprio mentre ne attua in modo sconcertante gli arbitrii più folli.
Il Caligola di Camus si trova, in partenza, esattamente nella stessa situazione di Dante. Aver perso la donna amata lo getta nella selva oscura. Il dramma, infatti, si apre con Caligola cercato dai senatori e dalla corte perché erra come un pazzo dopo la morte di lei. Anche qui, come in molti capolavori della letteratura, la vicenda appare segnata da un conto aperto con il destino. Un trauma, cioè un colpo subito e che scuote ogni possibilità di pacifico “accordo con la vita”. «Come si può continuare a vivere con le mani vuote quando prima stringevano l’intera speranza del mondo? Come venirne fuori? (scoppia in una risata falsa, artificiosa). Fare un contratto con la propria solitudine, no? Mettersi d’accordo con la vita. Darsi delle ragioni, scegliersi un’esistenza tranquilla, consolarsi. Non è per Caligola».

L’assurdo e il destino. La vita per l’imperatore diviene perciò “esecuzione”, termine che ha il triplice valore di performance teatrale, privilegio di boia, e inevitabile azione secondo una necessità stabilita e ineluttabile. La non-tranquillità di Caligola contrasta con tutti i generi di tranquillità dei personaggi che lo circondano, i senatori, l’amante, i sudditi. La sua inquietudine lo porta a vestire i panni di una grottesca Venere (dea dell’amore e della nascita del mondo) o del più buono tra gli uomini che, al pari di Dio, pensa di poter ridare l’innocenza a chi ha commesso la colpa, come accade con uno dei suoi congiurati, una specie di personaggio alter ego, Cherea. Il quale sa della vita le stesse cose di Caligola, ma si comporta diversamente. Anche io, dice Cherea, «ho voglia di vivere e di essere felice. E credo che le due cose non siano possibili se si spinge l’assurdo fino alle estreme conseguenze».
L’assurdo, appunto, è la presenza del destino, che ha quel volto idiota. Mentre Caligola sa che ogni azione è perciò in fondo uguale, imprigionata nell’impotenza di avere (riavere) la luna, Cherea accetta invece che per una convenzionale felicità nella vita certe azioni valgano più di altre. Ma per lo stesso motivo deve eliminare Caligola, che più che odiato è “scomodo”.

«Sono ancora vivo!». Il testo nasce a ridosso della grande stagione teatrale e letteraria dell’assurdo. La stagione di Beckett, di Ionesco e di altri grandi drammaturghi e scrittori. L’esperienza devastante della Seconda Guerra mondiale mise un sigillo anche socio-politico a questa conoscenza del destino come “assurdo”, e la vita una poesia sulla morte. «La recito a modo mio, tutti i giorni», dice Caligola. Camus mise la sua forte, acuta intelligenza nella lavorazione, e le sue ferite e le sue fascinazioni di uomo. Il suo sguardo che conosceva il deserto e i colori d’Algeria. La conoscenza della lotta politica e culturale.
Ci sono molti momenti in cui al lettore e allo spettatore si rivelano verità estreme della vita. Anche scomode o perturbanti. E il grido finale di Caligola mentre muore («Sono ancora vivo!») si fissa, quasi come sguardo di medusa che pietrifica. O meglio, che incide con il fuoco l’esistenza di una figura umana che desidera l’impossibile e per questo scardina ogni luogo comune obbligando a “pensare”.
Il lettore che non indietreggia di fronte a questo sguardo ha due possibilità. O compiangere e detestare Caligola, oppure lasciare che quella domanda passi sulle proprie labbra, butti sottosopra la propria esistenza, lo renda strano e inafferrabile agli occhi di tutti. Lo renda un “personaggio” in questo teatro di gente che invece s’è messa d’accordo con la vita.

Tratto da Tracce, N.5, Maggio 2010