una LETTERA a Tracce:
Avatar, mio figlio e il gusto di un giudizio
01/02/2010 - Un padre di famiglia viene trascinato a vedere il film di James Cameron. E ne esce deluso: «Manca uno sguardo umano». Ma scopre che, anche in quella situazione, si può costruire qualcosa...
Cari amici,
scrivo per raccontarvi quello che mi è capitato domenica scorsa andando a vedere, con uno dei miei cinque figli e altri tre suoi amici di 11 anni, il film Avatar, che pare sia già diventato il film più visto della storia del cinema.
Probabilmente il fatto di aver ceduto all’insistenza di mio figlio rinunciando a un tranquillo pomeriggio di pennichella, letture e goal di serie A, per un film della durata di quasi tre ore visto su schermo panoramico in seconda fila per mancanza di altri posti, non mi aveva messo nella miglior disposizione per apprezzarlo. Ma, al di là dell’ottimo confezionamento, degli effetti speciali e della spettacolarità - che peraltro riesuma elementi presenti in altri celeberrimi film come Apocalipse Now, Terminator, Jurassic Park... -, il messaggio di fondo del film mi è apparso abbastanza inequivocabile: una profonda e inappellabile disistima per l’uomo in quanto tale, per la sua storia e civiltà, per quello che egli può costruire. E, d’altro canto, un’esaltazione dell’energia della natura in senso panteistico, che alla fine ha il sopravvento con una brutta copia in salsa bio della resurrezione, del primitivismo innocente archi-e-frecce in simbiosi con l’ambiente. Insomma, dell’utopia eco-etico-moralista che, appunto, non ha luogo sulla terra ma può esistere solo sul pianeta Pandora. E trova come unica alleata tra gli uomini la tecno-scienza, impersonata dalla burbera Sigourney Weaver, che difende i nativi per poterli studiare sotto il profilo scientifico: gli altri uomini sono solo affaristi, idioti e violenti, con una prevedibilità noiosa e mortale dei loro comportamenti. Uno sguardo umano tra gli umani, che si usano a vicenda per i rispettivi scopi, è impossibile. L’unico amore possibile è quello tra la figlia del capo tribù dei nativi e il protagonista, ex marine costretto sulla sedia a rotelle, ma sotto le mentite e atletiche spoglie del proprio avatar, surrogato virtuale dell’uomo e dell’alieno costruito in laboratorio, che vive, significativamente, quando l’uomo dorme. Ma quale “amore”? Un amore che non porta alla realizzazione di sé e della propria natura, ma anzi alla scelta del protagonista (uomo) di diventare definitivamente alieno, rinunciando alla sua natura e storia umana: del resto, come dice il protagonista al proprio fidato computer, perché mai gli alieni dovrebbero essere interessati agli uomini? Per «la birra light e i blue jeans», evidentemente gli unici valori rispettabili della nostra cultura (alla faccia di Dante, Leopardi, Mozart...)?
È davvero interessante vedere questo film per capire a quali conseguenze, in realtà a quale utopico “nulla”, porta la mentalità dominante così lucidamente rappresentata e sposata dagli autori e in cui siamo immersi ogni giorno: avendo abolito la possibilità del rapporto umano con Dio, si finisce per abolire l’uomo stesso, come aveva profetizzato Clive Staples Lewis oltre 50 anni fa.
Ma il fatto più interessante è ciò che è successo immediatamente alla fine del film. I quattro ragazzi che erano con me si scambiavano entusiasti le impressioni (l’ultima mezz’ora del film è tutta una spettacolare battaglia): «Io voglio avere un avatar», diceva uno; e un altro per superarlo: «Io voglio essere un avatar». Io li guardavo sconfortato e un po’ triste, sperando di aver modo, senza fare un pesante “pistolotto”, di comunicare in modo efficace il mio giudizio. In quel momento mio figlio si stacca dalla combriccola degli amici e, vedendomi pensieroso, mi chiede: «Papà, papà, ti è piaciuto?». Ero felice che me lo chiedesse, che non fossi per lui semplicemente il papà-autista, possibilmente muto e accondiscendente, necessario per raggiungere il cinema... Gli rispondo secco: «No». «Come no?», mi dice lui, di fatto richiamando l’attenzione anche degli altri amici. Allora vado all’attacco: «Scusa Simone, belli gli effetti speciali, ma ti sei accorto che non c’è un uomo nel film che esprima una positività e una bellezza del vivere da uomo, tanto che alla fine il protagonista decide di diventare un alieno? Nella tua esperienza, le persone che conosci sono proprio tutte così negative?». Attimo di silenzio e poi lui: «No, non sono così». «Se la vita fosse tutta così non ci sarebbe speranza per nessuno», riprendo io. Ancora silenzio: «È vero papà, hai ragione». Parte poi una discussione serrata con tutti i ragazzi, in auto e davanti a una pizza, richiamando diversi episodi del film e sollecitando un giudizio da parte loro. Uno di loro, mi ha raccontato poi il padre, arrivato a casa, alla richiesta di come era stato il film, ha risposto: «Bruttissimo!».
Be’, al di là dell’esito, sicuramente non definitivo, della piccola battaglia nella lotta con ciò che pensa “il mondo”, ho proprio provato un certo gusto. Un gusto a non lasciarsi schiacciare dalla circostanza con tutti i suoi falsi effetti speciali, ma a rischiare un giudizio e ad accompagnare chi ti è vicino a un proprio giudizio, senza mettere i figli sotto una campana di vetro che si sgretolerebbe in un attimo sotto i colpi fascinosi e subdoli della cultura al potere. Un giudizio che nasce dall’esperienza di appartenere a un luogo reale - non a un’utopia emotivamente affascinante -, che c’è in forza di un Padre che non ci ha giudicati per il nostro niente. Ma, attraverso la carne non virtuale di Suo figlio, ci ha amato e ci ama come figli.
Alberto, Seregno
scrivo per raccontarvi quello che mi è capitato domenica scorsa andando a vedere, con uno dei miei cinque figli e altri tre suoi amici di 11 anni, il film Avatar, che pare sia già diventato il film più visto della storia del cinema.
Probabilmente il fatto di aver ceduto all’insistenza di mio figlio rinunciando a un tranquillo pomeriggio di pennichella, letture e goal di serie A, per un film della durata di quasi tre ore visto su schermo panoramico in seconda fila per mancanza di altri posti, non mi aveva messo nella miglior disposizione per apprezzarlo. Ma, al di là dell’ottimo confezionamento, degli effetti speciali e della spettacolarità - che peraltro riesuma elementi presenti in altri celeberrimi film come Apocalipse Now, Terminator, Jurassic Park... -, il messaggio di fondo del film mi è apparso abbastanza inequivocabile: una profonda e inappellabile disistima per l’uomo in quanto tale, per la sua storia e civiltà, per quello che egli può costruire. E, d’altro canto, un’esaltazione dell’energia della natura in senso panteistico, che alla fine ha il sopravvento con una brutta copia in salsa bio della resurrezione, del primitivismo innocente archi-e-frecce in simbiosi con l’ambiente. Insomma, dell’utopia eco-etico-moralista che, appunto, non ha luogo sulla terra ma può esistere solo sul pianeta Pandora. E trova come unica alleata tra gli uomini la tecno-scienza, impersonata dalla burbera Sigourney Weaver, che difende i nativi per poterli studiare sotto il profilo scientifico: gli altri uomini sono solo affaristi, idioti e violenti, con una prevedibilità noiosa e mortale dei loro comportamenti. Uno sguardo umano tra gli umani, che si usano a vicenda per i rispettivi scopi, è impossibile. L’unico amore possibile è quello tra la figlia del capo tribù dei nativi e il protagonista, ex marine costretto sulla sedia a rotelle, ma sotto le mentite e atletiche spoglie del proprio avatar, surrogato virtuale dell’uomo e dell’alieno costruito in laboratorio, che vive, significativamente, quando l’uomo dorme. Ma quale “amore”? Un amore che non porta alla realizzazione di sé e della propria natura, ma anzi alla scelta del protagonista (uomo) di diventare definitivamente alieno, rinunciando alla sua natura e storia umana: del resto, come dice il protagonista al proprio fidato computer, perché mai gli alieni dovrebbero essere interessati agli uomini? Per «la birra light e i blue jeans», evidentemente gli unici valori rispettabili della nostra cultura (alla faccia di Dante, Leopardi, Mozart...)?
È davvero interessante vedere questo film per capire a quali conseguenze, in realtà a quale utopico “nulla”, porta la mentalità dominante così lucidamente rappresentata e sposata dagli autori e in cui siamo immersi ogni giorno: avendo abolito la possibilità del rapporto umano con Dio, si finisce per abolire l’uomo stesso, come aveva profetizzato Clive Staples Lewis oltre 50 anni fa.
Ma il fatto più interessante è ciò che è successo immediatamente alla fine del film. I quattro ragazzi che erano con me si scambiavano entusiasti le impressioni (l’ultima mezz’ora del film è tutta una spettacolare battaglia): «Io voglio avere un avatar», diceva uno; e un altro per superarlo: «Io voglio essere un avatar». Io li guardavo sconfortato e un po’ triste, sperando di aver modo, senza fare un pesante “pistolotto”, di comunicare in modo efficace il mio giudizio. In quel momento mio figlio si stacca dalla combriccola degli amici e, vedendomi pensieroso, mi chiede: «Papà, papà, ti è piaciuto?». Ero felice che me lo chiedesse, che non fossi per lui semplicemente il papà-autista, possibilmente muto e accondiscendente, necessario per raggiungere il cinema... Gli rispondo secco: «No». «Come no?», mi dice lui, di fatto richiamando l’attenzione anche degli altri amici. Allora vado all’attacco: «Scusa Simone, belli gli effetti speciali, ma ti sei accorto che non c’è un uomo nel film che esprima una positività e una bellezza del vivere da uomo, tanto che alla fine il protagonista decide di diventare un alieno? Nella tua esperienza, le persone che conosci sono proprio tutte così negative?». Attimo di silenzio e poi lui: «No, non sono così». «Se la vita fosse tutta così non ci sarebbe speranza per nessuno», riprendo io. Ancora silenzio: «È vero papà, hai ragione». Parte poi una discussione serrata con tutti i ragazzi, in auto e davanti a una pizza, richiamando diversi episodi del film e sollecitando un giudizio da parte loro. Uno di loro, mi ha raccontato poi il padre, arrivato a casa, alla richiesta di come era stato il film, ha risposto: «Bruttissimo!».
Be’, al di là dell’esito, sicuramente non definitivo, della piccola battaglia nella lotta con ciò che pensa “il mondo”, ho proprio provato un certo gusto. Un gusto a non lasciarsi schiacciare dalla circostanza con tutti i suoi falsi effetti speciali, ma a rischiare un giudizio e ad accompagnare chi ti è vicino a un proprio giudizio, senza mettere i figli sotto una campana di vetro che si sgretolerebbe in un attimo sotto i colpi fascinosi e subdoli della cultura al potere. Un giudizio che nasce dall’esperienza di appartenere a un luogo reale - non a un’utopia emotivamente affascinante -, che c’è in forza di un Padre che non ci ha giudicati per il nostro niente. Ma, attraverso la carne non virtuale di Suo figlio, ci ha amato e ci ama come figli.
Alberto, Seregno
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