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lunedì 5 aprile 2010

Giotto e l'enigma di Isacco

Giuseppe Frangi
Storia di un affresco che per gli esperti è sempre stato un giallo. E di alcuni studi in grado di smentire quanto si pensava finora. Rivelando un genio che per esprimere la fede ha compiuto una rivoluzione
«Una nostra amica di Madrid, che sta a Roma adesso, mi ha mandato un particolare (di Giotto; ndr) della Maddalena che incontra il Signore risorto: la Maddalena si slancia verso di Lui per prenderlo e Lui fa: “Un momento non toccarmi, perché non sono ancora salito al Padre mio”. La foto riprende le due mani della Maddalena e la mano di Cristo: è una cosa bellissima perché non c’è nessun altro contenuto: ci sono le due mani della Maddalena lanciate così e la mano di Cristo che segna il confine. È una soglia: la soglia è il termine di un cammino e l’inizio di un’altra modalità di cammino. Uno “vive” venti chilometri per andare a casa; quando arriva sulla soglia della casa, vive in un altro modo (a casa si vive in un altro modo). Nei venti chilometri prima, doveva subire il freddo, la fame, la sua stanchezza; la casa è la dimora».
(Luigi Giussani, Vivendo nella carne, pp. 323-324)

La prossima volta che avrete la fortuna di visitare la Basilica Superiore di Assisi, dovrete affrettarvi alla terza campata della parete destra. Perché lì, in quei due riquadri in alto, divisi dalla lunga finestra ad ogiva, c’è l’inizio di tutto. Spieghiamoci: i due riquadri rappresentano la scena della Benedizione di Giacobbe, eccezionalmente divisa in due frames. A sinistra si vede Isacco, cieco e morente, che benedice appunto il secondogenito Giacobbe. A destra, invece, respinge il povero Esaù, vittima dell’inganno orchestrato dal fratello e dalla madre Rebecca. Sui libri di storia dell’arte queste due scene di eccezionale bellezza sono sempre state catalogate come opera di un non meglio specificato “Maestro delle storie di Isacco”. Per ragioni stilistiche, oltre che tecniche (sono nel registro alto e quindi nella lavorazione sono certamente precedenti rispetto agli affreschi più celebri con le Storie di San Francesco), i due riquadri sono i più antichi tra quelli della navata di Assisi.

“O” come originale
Ma è tale la loro qualità, e soprattutto la loro modernità, da rappresentare un vero mistero attorno al quale generazioni di studiosi si sono spaccati la testa. Sino a che qualcuno, come il grande critico Luciano Bellosi, ha rotto gli indugi e ha avanzato l’unico nome sostenibile per un tale capolavoro: Giotto. Tutta la sua riflessione è stata raccolta pochi mesi fa in un libro dal titolo magnifico (E i vivi parean vivi, tratto dal versetto di Dante, nel canto XII del Purgatorio), in cui ripercorre il cammino che l’ha portato a smentire l’ipotesi sostenuta negli anni Novanta da Federico Zeri, il quale, invece, era convinto che tutto il ciclo della navata di Assisi fosse da attribuirsi a un maestro romano della cerchia del Cavallini.
Oggi, però, l’ipotesi di Bellosi trova conferma in un nuovo bellissimo libro, appena pubblicato da Electa, e scritto da Serena Romano, una studiosa che come pochi altri conosce il cantiere di Assisi (La O di Giotto, Electa, € 38,00).
Ma torniamo su quei due riquadri. Siamo nell’ultimo scorcio del 1200. Il cantiere architettonico della Basilica è concluso e tocca a papa Niccolò IV, il primo francescano a salire al soglio pontificio, avviare i lavori per gli affreschi. Non ci sono documenti, ma il gioco serrato delle date non lascia molti dubbi. Agli inizi degli anni 90 viene montato il ponteggio e su quella navata di destra sale un maestro che intraprende qualcosa di assolutamente nuovo, sotto ogni profilo. Anche quello tecnico. Infatti per la prima volta la stesura dell’intonaco, sul quale il pittore interveniva appunto dipingendo “a fresco” (quindi nell’arco di una giornata), non avviene un po’ astrattamente dall’alto in basso a fasce (o “pontate” come recita il termine tecnico): il maestro impone che l’intonaco segua i perimetri delle figure, dimostrando quindi una conoscenza approfondita delle tecniche degli antichi. La stesura dell’intonaco deve seguire le necessità espressive dell’artista e non più viceversa.
È anche un maestro dalle idee molto chiare, perché conclude il lavoro in due settimane: sono rispettivamente sei e sette le giornate lavorative che si possono ricostruire proprio seguendo le stesure degli intonaci. È, infatti, icastico e insieme grandioso lo sviluppo narrativo, che come scrive giustamente la Romano, «mette in scena il primo dramma psicologico della pittura medievale» e ingloba per la prima volta «l’elemento “tempo” nella narrazione». Isacco steso nel grande letto, dentro una stanza che è un ambiente di eccezionale oggettività e profondità spaziale, con gli occhi realisticamente incrostati dalla forma di cecità che l’aveva colpito, è protagonista silente e inconsapevole delle due scene. A sinistra, un’ancella lo sostiene nella fatica di sollevarsi dal letto. A destra, sembra quasi ricadere all’indietro per scartare l’offerta di Esaù. Ma la regia delle due scene è tenuta da Rebecca: che a sinistra è osservatrice apprensiva dell’inganno orchestrato con Giacobbe. Mentre a destra scappa dalla stanza, completamente avvolta nel mantello, sorpresa di spalle in un brano di racconto pittorico di una sintesi e di una modernità che lasciano a bocca aperta.

L’esplosione di Padova
Ovviamente la domanda che a questo punto ognuno si pone è quella fatidica: che cosa porta a dire che queste due scene siano di Giotto? È lo scavo nella forma mentis dell’artista che porta la Romano alla certezza. Nelle due Storie di Isacco infatti si trovano, in forma di invenzione, tantissimi elementi che Giotto maturo farà “esplodere” negli affreschi di Padova, più di dieci anni dopo. Sono tanti e davvero affascinanti questi elementi di coincidenza profonda. Uno in particolare: quello del “gesto”. Giotto mette spesso un gesto, emotivamente potente, come perno delle sue composizioni. Nelle due Storie sono le mani, icasticamente isolate sul fondo rosso del tendaggio che chiude la stanza di Isacco. Ed è la stessa potenza semplice e densa che ritroviamo nella mano di Cristo, che si staglia sul blu del cielo nella scena dell’Ingresso a Gerusalemme a Padova; o è la stessa efficacia fragile e drammatica del braccio del bimbo, sollevato brutalmente nella Strage degli Innocenti; o è la semplicità tesa delle mani della Maddalena nel Noli me tangere, che tanto avevano colpito don Giussani (vedi pagina precedente). Tanti altri elementi profondi portano a identificare il maestro delle Storie di Isacco in Giotto. E Serena Romano ha il merito di proporli con una nettezza di sguardo e una precisione che costituiscono il fascino del suo libro. Quel che resta alla fine è il racconto per dettagli di qualcosa di inauditamente nuovo apparso sulla scena dell’espressività umana in quella fine di secolo. Ed è proprio questo essere “nuovo” che avrebbe permesso poi al Giotto di Padova di aderire con tanta energia e commozione alla novità che duemila anni fa è apparsa sulla scena del mondo.

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