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lunedì 5 aprile 2010

Miracolo a metà

di Luca Doninelli

Un film racconta la guarigione di una ragazza paralizzata. E piace ad atei e credenti. Ma nasconde un’ambiguità: la fede non c’entra in nulla. Ecco cosa succede quando non accettiamo il rischio di essere cambiati da ciò che facciamo

Dopo aver visto Lourdes, il film di Jessica Hausner, e averci pensato quanto basta per non dire solo quello che l’istinto mi suggerisce, ammetto che non so bene cosa dire.
Non che abbia le idee confuse. È che raccontare storie è una cosa molto difficile, e tante volte uno non lo sa e si mette a raccontare lo stesso, e per un po’ gli va bene, e riesce a produrre anche delle belle scene. Poi non sa bene come andare avanti e s’impantana, comincia a pasticciare, allora si aggrappa al già detto e al già sentito (anche in senso stilistico).
Non riassumere la storia è impossibile. Non è gentile verso chi ha voglia di vedere il film, ma almeno per linee generali occorre farlo.

La scoperta di Christine. Un gruppo di pellegrini va a Lourdes. Tra questi Christine, una ragazza affetta da sclerosi a placche, da anni costretta all’immobilità. Non è molto entusiasta del viaggio, preferisce le escursioni “culturali” come Roma. La sua assistente è una birichina cui piace più scherzare coi ragazzi che assistere i malati. Anche a Christine piacerebbe, ma non può. E se ne lamenta con un prete: perché proprio io?
In sua compagnia ci sono altre persone interessanti. Una è un’anziana che vuole guarire da una grave malattia e chiede a un prete come fare, sentendosi rispondere che è un problema di atteggiamento spirituale. C’è poi Cécile, la capogruppo, una donna giovane molto severa, che bacchetta la leggerezza delle ragazze e ricorda che dobbiamo pregare per l’anima e non per il corpo. Cécile in realtà è malata gravemente, e questa sua scissione dell’anima, che la rende rigida e infelice, si rivelerà presto anche nel corpo.
Una mattina, imprevedibilmente, Christine scopre di potersi muovere, si alza. I medici ammettono che si tratta di qualcosa di più di una semplice remissione del male. Lei legge questa guarigione come la possibilità, finalmente, di fare qualcosa di piacevole, come mangiare da sola una coppa di gelato, immaginare un futuro per sé e innamorarsi di un Cavaliere di Malta che si trova nel suo stesso gruppo.
Il finale è lungo e privo d’idee. Prima Christine e il giovane si baciano, poi c’è una festa da ballo e lei vuole ballare, poi cade per terra ma si rialza da sola, e alla fine - più per un moto di perplessità che per una recrudescenza della malattia - finisce per risedersi sulla sedia a rotelle, mentre tutti cantano Felicità di Al Bano e Romina.

Freno tirato. La Hausner è brava nel creare il ritmo del film, ci sono scene comiche e tutto sommato ci si diverte. Lo spettatore prende spontaneamente le parti della ragazza, non solo perché l’attrice, Sylvie Testud, riesce a trasmettere bene lo spaesamento del personaggio, ma perché è chiaro che il miracolo premia la sua voglia di vivere la vita fino in fondo.
Alla fine, però, la Hausner non riesce nell’intento: per farlo avrebbe dovuto liberarsi di certi modelli (in primis Luis Buñuel), che impongono ai fatti schemi troppo rigidi. La regista non segue fino in fondo il paradosso che a un certo punto sembra voler uscire dalle sue mani e si accontenta di una storiellina abbastanza atea e di gusto surrealista. Dico “atea” non tanto perché la Hausner sia atea dichiarata, ma perché le cose si fermano un po’ a metà, segno che la storia viene raccontata con il freno a mano tirato.
Si ferma a metà Christine, che ottiene il miracolo senza in fondo sapere che farsene: si ferma all’idea che adesso potrà realizzare i suoi sogni, o qualcosa di simile, e tant’è. Non vuole guardare fino in fondo come stanno le cose: non perché la regista voglia rappresentare un caso d’incertezza, ma perché incerta è la regista stessa, che si ferma anche lei a metà, proprio dove avrebbe potuto sferrare l’attacco finale: una preghiera, o anche una bestemmia... Qui sta il sostanziale fallimento del film, e su questo sono d’accordo con il giudizio di Vittorio Messori.
Certo che pure la Chiesa si ferma a metà (anche un po’ prima) e non esce molto bene dal film. Chi può trovare affascinante il cristianesimo quando le risposte dei suoi rappresentanti sono sempre così complicate e così poco pertinenti con l’urgenza delle domande? A un malato di cancro che urla a Dio che lo liberi dal male non si può rispondere che occorre, prima, un percorso per aprirsi alla Sua volontà affinché guarisca l’anima e dopo, semmai, lenisca le sofferenze del corpo.
Non che siano dette parole sbagliate: quello che manca sono gli uomini. Qui le parole della fede volano un po’ distratte qua e là, prendono corpo in voci che appartengono a persone che pensano ad altro: al futuro, all’amore, alla ragazza, tutte cose bellissime ma che il film ci presenta sempre come altro rispetto alla fede. La fede non c’entra mai: «Non bisogna mai esagerare», dice una signora che si era chiesta perché fosse stata miracolata proprio questa ragazza poco religiosa.

Uguali a prima. Insomma, l’idea che una tipa così guarisca a Lourdes non era brutta, anzi. Il problema è che, per realizzarla, un artista deve accettare dei veri rischi, e il primo è quello di essere cambiato da ciò che fa. E questo lo obbliga a prendere molto sul serio la fede. Qui, tutto sommato, di fede ce n’è poca. C’è solo una modernità malata, questo sì, oscillante tra il “credere di credere” e l’aperto scetticismo. E che alla fine, a dispetto del miracolo (cui nemmeno Christine sembra credere più), se ne torna a casa uguale a come era venuta.
Se la Hausner ci avesse raccontato tutto ciò con mano ferma, facendo proprio fino in fondo l’atteggiamento irridente dell’amato Buñuel, alla fine il film sarebbe risultato più apprezzabile. Invece si è persa. Ma proprio questo, paradossalmente, le ha portato fortuna, producendo un’ambiguità che alla fine ha reso gradito il film agli atei come ai cattolici: ciascuno ha potuto vederci quello che voleva.

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