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domenica 5 febbraio 2012

Szymborska, come un vino amabile

[da Tracce.it]
di Davide Rondoni
02/02/2012 - Premio Nobel nel 1996, è stata uno dei «frutti migliori» della tradizione poetica polacca. Ironica e profonda, «ha riavvicinato ai versi tanti che se ne sentivano esclusi». Strappando l'apparenza. Come in questa poesia dedicata alla morte... 

Wislawa Szymborska è scomparsa l'1 febbraio 2012.

Un vino amabile della poesia contemporanea. Carica di anni e di onori se ne è andata Wislawa Szymborska la poetessa dal nome difficile e dalla poesia apparentemente facile che ha riscosso attenzione in tutto il mondo specie dopo l’assegnazione del Nobel.
La sua voce poetica, attenta a non oltrepassare la soglia di una colloquialità cordiale e complice con il lettore - con un lettore spesso allontanato da inutili strèpiti o da intorbidamenti del linguaggio da taluni sedicenti poeti contemporanei - ha offerto le epifanie di senso di una quotidianità vissuta con attenzione ironica e profonda. Un vino amabile, nel senso di un gesto che non chiede al lettore di essere un “letterato” e di non scomodarsi troppo. Mai il suo trascendere le apparenze “strappa” a un livello veramente inquietante. Si tratta, per così dire, di un primo acquisto, di un risveglio di coscienza. Proprio alla morte, la poetessa aveva dedicato una delle sue poesie ironiche e profonde:

Sulla morte, senza esagerare

Non s'intende di scherzi,
stelle, ponti,
tessitura, miniere, lavoro dei campi,
costruzione di navi e cottura di dolci.

Quando conversiamo del domani
intromette la sua ultima parola
a sproposito.

Non sa fare neppure ciò
che attiene al suo mestiere:
né scavare una fossa,
né mettere insieme una bara,
né rassettare il disordine che lascia.

Occupata ad uccidere,
lo fa in modo maldestro,
senza metodo né abilità.
Come se con ognuno di noi stesse imparando.

Vada per i trionfi,
ma quante disfatte,
colpi a vuoto
e tentativi ripetuti da capo.

A volte le manca la forza
di far cadere una mosca in volo.
Più di un bruco
la batte in velocità.

Tutti quei bulbi, baccelli,
antenne, pinne, trachee,
piumaggi nuziali e pelame invernale
testimoniano i ritardi
del suo svogliato lavoro.

La cattiva volontà non basta
e perfino il nostro aiuto con guerre e rivoluzioni
è, almeno finora, insufficiente.

I cuori battono nelle uova.
Crescono gli scheletri dei neonati.
Dai semi spuntano le prime due foglioline,
e spesso anche grandi alberi all'orizzonte.

Chi ne afferma l'onnipotenza
è lui stesso la prova vivente
che essa onnipotente non è.

Non c'è vita
che almeno per un attimo
non sia immortale.

La morte
è sempre in ritardo di quell'attimo.

Invano scuote la maniglia
d'una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.

Probabilmente in questo mondo distratto da chiacchiere a vanvera e da un profluvio di scrittura poco interessata alle epifanie del vivente e alle profonde inquietudini, la poesia della Szymborska ha avuto il compito di riavvicinare alla voce della poesia tanti che se ne sentivano esclusi o lontani. Lasciando perdere le polemiche che hanno impegnato chi le ha voluto fare i raggi x sulla sua maggiore o minore distanza dai regimi totalitari che hanno tragicamente segnato la vita del suo Paese, resta il fatto che la intelligenza arguta e gentile di questa signora delle lettere è uno dei frutti migliori della tradizione recente della poesia polacca. I fiori più alti e affascinanti di quella storia si danno forse in altre pagine, in altre voci: basti pensare a grandi poeti come Zbigniew Herbert o come Jan Twardoski, pubblicati in Italia da Adelphi e da Marietti. Poeti meno noti, poichè non baciati dalla bocca fortunosa e ambigua delle commissioni Nobel, ma certo più forti e azzardati. E meno “accomodanti” verso la mentalità dominante del nostro tempo. Quella polacca è infatti una delle tradizioni del Novecento più vive, come mostrano anche i più noti Czeslaw Milosz e la stessa opera poetica di grande valore di un ex-operaio diventato molto noto in seguito per aver fatto un altro mestiere, Karol Wojtyla.

lunedì 30 gennaio 2012

Chesterton e la crisi moderna


Il "distributismo" con persona e famiglia al centro dell'economia
di Gilberto Castrovilla

ROMA, sabato, 28 gennaio 2012 (ZENIT.org).- “Chesterton & Pound - La persona contro la crisi”. E’ questo il titolo di un incontro che si è svolto il 27 Gennaio 2012 a Roma presso la sede dell’associazione LabCom.
Tra gli intervenuti l’avv. Marco Sermarini, presidente della Società Chestertoniana Italiana, che ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande.
Lei ritiene che Chesterton abbia qualcosa da dire a proposito dell’attuale crisi?
Sermarini: In effetti sì! Tanto più che Chesterton parte dalla dottrina sociale della Chiesa, precisamente da quella Rerum Novarum che ispirò lui, lo scrittore inglese Hilaire Belloc e padre Vincent McNabb ad elaborare il distributismo, quella teoria sociale e politica che vuole la famiglia al centro della società, protagonista dello sviluppo sociale ed economico della propria terra, proprietaria almeno della sua casa e di ciò che gli necessita per vivere liberamente, intraprendente in campo economico con piccole imprese, costruttrice di novità. Una teoria equidistante da capitalismo e socialismo...
In che senso?
Sermarini: Nel senso che lei può leggere con chiarezza nel brano che le cito, estratto da Il profilo della ragionevolezza, una delle opere fondamentali per chi vuole conoscere il pensiero distributista di Chesterton, pubblicata per la prima volta da Lindau pochi mesi fa: “Il capitalismo e l'affarismo, nei loro recenti sviluppi, hanno predicato l'espansione degli affari anziché la conservazione dei beni personali; nel migliore dei casi hanno tentato di travestire il borsaiolo attribuendogli alcune virtù del pirata. Quanto al comunismo, corregge il borsaiolo solo vietando le borse e le tasche”. Mi sembra abbastanza chiaro...
In altre parole?
Sermarini: Chesterton ed i suoi amici sostenevano che capitalismo e socialismo fossero due lati della stessa medaglia e che comprimessero la libertà e il corretto sviluppo di uomini e società. Essi pensavano invece che una società armoniosa può sussistere solo a patto di ripristinare l’ordine tradizionale, cioè quello che vede la famiglia proprietaria di casa e terra, in un certo senso economicamente autonoma sulle proprie gambe, esercente attività imprenditoriali in cui i protagonisti non siano “dipendenti” ma cooperatori della stessa vicenda sociale. In un certo senso è il tentativo di ristabilire oggi ciò che aveva costruito la civitas christiana ossia l’ordine sociale medioevale. Dice infatti Chesterton: “Man mano che ciascun gruppo o famiglia si riapproprierà dell'esperienza reale della proprietà privata, diventerà un centro di influenza, una missione”. Possiamo dire che Chesterton riprese le mosse dei grandi santi medioevali da San Benedetto da Norcia a San Tommaso d’Aquino. Circa l’autonomia degli uomini nel lavoro ecco cosa diceva: “La nostra società è così anormale che l’uomo normale non sogna mai di avere la normale occupazione di occuparsi della sua proprietà. Quando sceglie un mestiere, sceglie uno dei diecimila mestieri che comportano l’occuparsi della proprietà dell’altra gente”.
Ma oggi tutto ciò le sembra possibile?
Sermarini: l’esperienza più compiuta del distributismo attualmente esistente è la cooperativa Mondragon in Spagna, che basandosi su questi principi ha costruito un’impresa ricca di migliaia di collaboratori artigiani e tecnici nei più disparati e complessi campi. Più in piccolo posso dire che anche in Italia c’è chi sta organizzandosi: dalle mie parti, nelle Marche, abbiamo dato vita ad una scuola media e superiore totalmente libera che si regge su chi la fa, conta sulla collaborazione delle famiglie coinvolte e dei ragazzi stessi, oltre che ad un sistema di aiuto reciproco tra famiglie che spazia dall’educazione dei figli al lavoro ed anche al sostegno finanziario.
E Chesterton cosa ha a che fare con Ezra Pound?
Sermarini: I due scrittori sono contemporanei (Pound era di una decina d’anni più giovane di GKC), si conobbero e frequentarono, condivisero parte delle loro idee seppure partendo da presupposti differenti ed arrivando ad esiti altrettanto differenti: l’idea che il capitalismo come il socialismo fossero sistemi problematici e di per sé malsani, l’idea di lottare contro la grande usura, l’idea che la persona possa avere le possibilità di lottare per ciò in cui crede. Per Chesterton le sue idee sociali e politiche (che crearono ai suoi tempi un certo movimento culturale e sociale in cui furono coinvolti tantissimi giovani) erano figlie della Chiesa Cattolica e miravano ad edificare la Chiesa e la vera libertà dell’uomo nella società.

martedì 17 gennaio 2012

"Per Sempre", l'ultimo libro della Tamaro, dove l'amore tocca credenti e non

"Per Sempre"
L'ultimo libro della Tamaro, dove l'amore tocca credenti e non

di Titti Del Greco

ROMA, sabato, 14 gennaio 2012 (ZENIT.org).-“Per sempre”, edito da Giunti, è l’ultimo capolavoro di Susanna Tamaro, triestina, classe 1957 diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma. La trama: Nora è morta da 15 anni, e Matteo, un medico affermato, s’interroga in modo ossessivo su quale possa essere il percorso da intraprendere dopo la perdita di sua moglie, suo figlio Davide, e la bambina in grembo a sua madre. Un viaggio denso di sentimenti tumultuosi e contrastanti: amore e dolore, ricordi che ritornano dal passato e che fanno da cornice a tutte le domande che un uomo, imbrigliato in un lutto così efferato, si pone. Matteo, da anni, si ritira spesso in un paesaggio naturale molto suggestivo, dove vive le sue intense riflessioni delineando i protagonisti passati e presenti della sua vita in un back round che spesso sfiora la lirica. Appare sconcertato da quanto accaduto, e non smette di raccontarsi e di vivere mille volte la sua storia intensa e dolorosa entrando, come Giobbe, in un dialogo intimo con Dio.
Appare evidente fin dalle prime pagine che l’autrice già nota per il grande successo “Va dove ti porta il cuore”, un bestseller che ha venduto più di 14 mila copie in tutto il mondo, creda che le relazioni più profonde, abbiano impresse una sottile valenza di eternità e questa è un’esperienza che viviamo un po’ tutti quando ci capita di imbatterci in una qualsiasi passione… E' come se percepissimo una sorta di naturale esigenza di infinitezza propria dell’animo umano... qualcosa di molto misterioso che sembra essere impresso nella nostro “io ontologico” e che viene a sussurrarci la frase: io voglio amarti per sempre.
Ma soffermiamoci sul protagonista: ciò che si snoda intorno a Matteo sembra richiamare la storia del giusto perseguitato. Matteo vive la felicità di un attimo con Nora e suo figlio Davide ma solo dopo pochi anni, in attesa del secondo figlio perde tutto… La tragedia irrompe nella sua vita a causa di un banale incidente (si parlerà anche di suicidio ma la realtà è che Nora si è schiantata a causa di un aneurisma cerebrale) e in un attimo tutto finisce e nulla più sembra avere senso.
Matteo è l’uomo dei dolori, si interroga , non capisce perché lo scenario della sua mente è completamente stravolto e lui, in prima battuta, si sente catapultato in una sorta di cieco e pagano fato verso una destinazione senza meta, dove ogni sorta di orizzonte appare compromesso. E dovrà fare un lungo cammino di discesa , dovrà sprofondare nell’abisso del dolore (Kenosis) e del non senso prima di recuperare se stesso e la sua più profonda ragione di esistere.
Matteo soffre ma non si ribella e, adesso più che mai, ama ritirarsi in un luogo solitario con una morfologia paesaggistica spettacolare che ne fa da sfondo…..in un impenetrabile nascondimento tra le bellezze del Creato, luoghi molto cari anche all’autrice dai quali si è ispirata per scrivere il romanzo…in una atmosfera - ci ha detto in un’intervista –dove ama camminare in solitudine, immersa nei suoi pensieri per ragionare, riflettere, farsi sorprendere da tutto ciò che la circonda, tra azione e contemplazione, esercitando perfettamente le qualità di Marta e Maria dei Vangeli!
Ma il percorso di Matteo, visto che neppure in ebraico la parola “caso “ non esiste, è una sorta di pellegrinaggio legato ampiamente al credo cristiano e il romanzo che è stato pensato in tale prospettiva , porta con sé tematiche forti . Infatti , se lo analizziamo a fondo, ci accorgiamo che la morte rappresenta proprio il suo filo conduttore. E questo, secondo la Tamaro, perché la morte è il più grande tabù dei nostri giorni. Se guardiamo le cose da un punto di vista antropologico,ci accorgiamo che si vive come se la morte fosse radicalmente bandita. Una sorta di alienazione collettiva tipica di questo mondo capitalista, globalizzato, solipsista, relativista permea il sociale : i più forti si ubriacano con la rincorsa al potere, alla fama, al successo, i più deboli con alcool e droghe di ogni genere. Secondo la Tamaro, invece, se non si affronta il grande mistero della morte non appare praticabile alcun percorso spirituale. “Nessuna indagine, nessuna interrogazione profonda - ha affermato con forza in più di una circostanza - può sussistere senza un’attenta indagine di finitezza”!
Saranno necessari anni di isolamento e di errori perché Matteo, ripeto, tra solitudine e scelte folli , deserti impraticabili e silenzi interminabili si rimpadronisca di se stesso e di tutto ciò che gli è rimasto e che continua a vivere intorno a lui: il padre Guido, il lavoro da medico, il suo piccolo rifugio in montagna, gli amici, l’ergoterapia, lo “sprofondamento “ tra le cose del creato; tutte risorse che, pian piano, ridoneranno senso al suo quotidiano.
Matteo vincerà la sua crisi quando, dal pensiero solitario, ricomincerà a percepire la speranza e a capire che adesso è necessario uscire dalla chiusura in se stesso che lo aveva blindato nel suo ego, per tornare a credere che l’uomo, nel senso più alto, si realizza solo attraverso la relazione e che l’amore rappresenta la via per il compimento di tale traguardo.
Anche il papà di Matteo, Guido è una figura portante del romanzo. Forse ne rappresenta proprio il fulcro forse perché nel pensiero dell’autrice c’era l’idea di restituire forza e dignità alla figura maschile che vive una crisi odierna senza pari.
Guido, cieco e solo apparentemente debole, morirà lasciando una commovente lettera al figlio quale preziosissimo testamento spirituale. Anche questo dettaglio procurerà in Matteo una sorta di spinta a rinascere dal fondo perché sarà il momento della presa di coscienza di “un amore unico e speciale – sostiene la Tamaro - che accoglie, che genera e continua a generare chi si è generato, di un riscatto, di una vera trasfigurazione.
“Per sempre” è un capolavoro dell’amore in un vivere cristiano, è una storia intessuta con la forza di chi crede, come la Tamaro, in valori che sono eterni, è un romanzo che tocca credenti e non perché, ripeto, tutti vorrebbero amare “per sempre”!
Ma è anche un monito per le coppie moderne che si stancano troppo presto di amare, per tutti coloro che hanno paura di amare, e viene a ricordarci che, chi ama deve necessariamente compromettersi.
“Per sempre”, infine, è anche la storia di una tragedia che si compie, di uno sprofondamento disperato del protagonista che, però, sottende un capovolgimento di prospettiva, un impercettibile squarcio di luce che si fa sempre più tangibile e che lascia trapelare che esiste una ineluttabile speranza rivoluzionaria: dentro ogni uomo vive una scintilla divina che, puntualmente, riemerge.

mercoledì 2 novembre 2011

Hereafter

Non è una vera recensione, ma un rapido appunto: si tratta di un al-di-là senza Cristo. Meglio di niente, per carità, ma troppo poco. Va bene che l'umanità si chieda che cosa c'è oltre la morte e si apra all'esistenza di un oltre. Ma questo oltre, se non ha un Nome rimane qualcosa di troppo vago, di ultimamente poco utile.

giovedì 28 luglio 2011

cappella degli Scrovegni on-line

Segnialiamo un sito molto interessante, che permette un tour virtuale alla Cappella degli Scrovegni, in alta definizione (potete zoomare le immagini di moltisssimo senza sgranare): eccone l'indirizzo http://www.haltadefinizione.com/magnifier.jsp?idopera=15&pagina=1#multi&lingua=it

venerdì 24 dicembre 2010

Buon Natale!

Gesù è nato per noi, per salvarci e renderci simili a Lui, Uomo-Dio. Rallegriamoci per tale dono!

lunedì 29 novembre 2010

La Natività di B.Congdon

di Pigi Colognesi

C’e una disarmata fragilità nella Natività di William Congdon che campeggia sul manifesto natalizio proposto da CL che si può trovare appeso in case, uffici e scuole. È stata dipinta nel 1960 e il suo autore, allora quarantottenne, è battezzato soltanto dall’anno precedente. Muove i primi passi nella Chiesa cattolica, seguendo come un bambino le indicazioni che gli vengono date. Soprattutto da parte di don Giovanni Rossi, il fondatore della Pro Civitate Christiana di Assisi che lo aveva conosciuto qualche anno prima, poi atteso e abbracciato al culmine della disperazione nell’agosto del 1959.



Congdon aveva cercato dappertutto, letteralmente in tutte le parti più belle del mondo, l’immagine che, attraverso l’arte, potesse redimere un’esistenza posta sotto il segno del naufragio, dell’insicurezza, dell’assenza di paternità. Aveva avuto un notevole successo nelle prestigiose gallerie di New York, ma non era stato sufficiente. Quanto più viaggiava in cerca dell’autentico, tanto più l’esile zattera dell’arte perdeva pezzi, lo lasciava sempre più solo e disperato, in balia dell’immensità del mare tanto amato e altrettanto temuto. Il gorgo lo inghiottiva.

Naufrago per l’ennesima volta dopo l’ennesimo viaggio, Congdon è tornato da don Giovanni, senza più nessuna energia. Allora, sorprendentemente, il sacerdote gli ha detto che era pronto per ricevere il battesimo, poteva rinascere da un’altra acqua. Ha accettato. Senza neanche sapere bene cosa fosse il cattolicesimo e come si facesse a viverlo. Perciò ha seguito quello che gli veniva suggerito: dipingi i principali misteri della fede. Ad esempio la Natività.

Il nero pavimento assomiglia alle intricate vie delle città formicolanti che aveva un tempo dipinto; ma ora non sprofonda, sostiene. Le pareti intorno sono simili alla voragine risucchiante del Colosseo o al dirupo da cui Positano cade in mare di vecchi quadri; ma ora diventa la calda scenografia dell’evento, l’abbraccio a qualcosa di fragilissimo, ma reale: quella donna seduta, poco più che una spatolata di tenero azzurro, e suo figlio, nient’altro che un bozzolo bianchissimo. Non poteva proferire altro che questo balbettio il neo cattolico William Congdon.

Ma su questo bozzolo, che è anche un seme, s’appoggia come a centro sicuro tutta la composizione. E si appoggerà tutta la sua vita. Sull’orlo delle pareti, in alto, non ci sono più le case pericolanti di Roma o New York, né i palazzi traballanti di Venezia; ci sono i cori angelici, una festosa confusione di ali. Solo tre anni prima ben altre ali avevano occupato, nere, distese, aggressive, tutto lo spazio del quadro: quelle dell’avvoltoio visto in Guatemala, uccello annunciatore di morte e che di morte si nutre. Angelo funereo che a Congdon parve annunciare la sua stessa morte.

Sopra Maria e il Bambino, quasi invisibile, una capanna dagli esili sostegni e dal tetto traballante. È la casa, il luogo del riposo, del conforto, l’approdo di ogni viaggio. È la Chiesa. Allora, in quel 1960, Congdon non sapeva ancora che forma avrebbe preso per lui questa dimora. Sarà la compagnia del movimento di CL, con la quale camminerà per il resto della vita. In essa scoprirà che per essere artista cristiano non è indispensabile trattare argomenti sacri.

Lui aveva sempre dipinto quello che i suoi occhi vedevano: città, monumenti, deserti. Nella nuova dimora tornerà a questi suoi soggetti. Attraverso un itinerario non privo di fatiche comprenderà che quel Bambino, quel bianco seme, è il fondo di cui consistono tutte le cose che si vedono. E lietamente dipingerà campi, piogge, alberi e colline trasfigurate dalla percezione della loro gloria. La gloria della salvezza di tutti gli uomini e di tutte le cose che è iniziata con la disarmata, potentissima, fragilità della Natività.

da ilsussidiario.net