lunedì 13 settembre 2010
Congdon, i crocifissi - secondo Cacciari
CACCIARI
Tra male e amore l’uomo-Signore che s’inabissa in terra
Cur deus homo? È forse l’interrogazione dell’arte figurativa dell’Europa o Cristianità, che ha per questo nel Crocefisso il suo topos più estremo. Perché Dio assume questo volto disfatto? Patisce questa morte maledetta? Holbein aveva disegnato ai margini del suo esemplare dell’Encomion moriae di Erasmo un Cristo con il berretto dei folli... Non è follia volersi incarnare? Di fronte a questo mistero si ergono i Crocefissi dei Cranach, le Passioni di un Grünewald, il Cristo deriso di Bosch e il Calvario di Bruegel, il grande Crocefisso del Velàsquez, col capo reclino, il volto coperto dai capelli (come nel Crocefisso 2 di Congdon), la cattura del Cristo di Goya. Ma tra tutte queste immagini la più affine a quelle di Congdon a me pare il Cristo disegnato da Juan de la Cruz: uno scheletrico squarcio, colto dall’alto, dal culmine dell’abbandono. Poiché questa è l’icona del Cristo che Congdon patisce: quella del radicale abbandono.
Di più: egli non dipinge un’immagine, ma il grido dell’abbandono. Quella creatura, i cui tratti vanno disfacendosi, il cui dolore de-liradai limiti della sua carne, per trasformarsi in dolore del corpo del mondo – quella creatura non chiede se è stata abbandonata, ma perché. Perché un abisso si spalanca tra quel corpo appeso e la Maiestas domini? Congdon ha visto un «buco» nel suo Crocefisso: un abisso, appunto. Il Crocefisso non sembra indicare altro che l’abisso. Eppure quale forza straordinaria si sprigiona proprio da questa icona dell’abisso che ci separa dalla Maiestas divina? Come può questo grido che suona di disperazione, apparire come atto di fede e di amore? Osservando la stessa struttura compositiva dei Crocefissi di Congdon è questo il dramma che sconvolge: tutto vi sembra partecipare, la tessitura cromatica è lacerata catastroficamente – eppure, proprio questo parla di anastasis, proprio lo sprofondare nel «buco» di questo «dolore diventato corpo» parla di resurrezione.
Cur deus homo? Nessuno potrebbe reintegrare la ferita se non Dio. Troppo grande è l’abisso che quella ferita ha aperto perché una potenza umana possa salvare. E questo abisso deve far vedere il pittore del Crocefisso. Ma, un tempo solo un uomo, una creatura così ferita, deve voler accogliere la possibile salvezza, l’ad-ventus imprevedibile. Solo un uomo deve voler bere il calice fino all’ultima feccia. E solo un Dio può salvare. Ecco il nodo che deve potersi mostrare in un’immagine sola.
sabato 21 agosto 2010
Non è un paese per vecchi (No Country For Old Men)
2007, Usa, Regia di: Ethan e Joel Coen
Cast principale: Tommy Lee Jones, Josh Brolin, Javier Bardem, Kelly McDonald, Woody Harrelson
Valutazione: Imperdibile
Un cacciatore incappa in un massacro tra corrieri della droga e si impossessa di una borsa piena di soldi. Sulle sue tracce si mette un killer psicopatico e uno sceriffo che cerca di salvargli la vita.
Recensione
È un America spietata e senz’anima quella che McCarthy svela nel suo libro “Non è un paese per vecchi” e portato sullo schermo dai fratelli registi Ethan e Joel Coen. Dovrebbe titolarsi forse, “Non è un paese per nessuno” a sentire le parole dello sceriffo Ed Tom Bell (Tommy Lee Jones), di fronte alla marea montante e irrefrenabile di un crimine disumano e totalmente privo di senso. Mentre scorrono le immagini di un Texas assolato e spoglio, sono le parole fuori campo dello sceriffo le prime che ascoltiamo. Bell ricorda di quando ha arrestato un giovane omicida che sarebbe di lì a poco andato – senza rimorsi -sulla sedia elettrica, e sullo schermo comincia l’impressionante sequenza di delitti di Anton Chigurh, un killer che gira con una pistola ad aria compressa usata nei mattatoi, con la quale senza esitazioni uccide chi gli si para davanti. Chigurh è stato prezzolato per trovare Llewellyn Moss, un uomo che mentre era a caccia si è imbattuto in un massacro tra trafficanti di droga. Moss è un uomo normale; fa il saldatore, ha una moglie, conduce una vita onesta. Ma di fronte a due milioni di dollari abbandonati in un furgone circondato di cadaveri, chi non sarebbe tentato? A tradirlo è un gesto compassionevole: mentre torna sul luogo del massacro per portare acqua all’unico superstite, viene visto. E comincia la caccia.
I fratelli Coen sono la coppia di registi cui molto deve il cinema degli ultimi anni (“Barton Fink”, “Mr. Hoola Hoop”, “L’uomo che non c’era”, “Il grande Lebowski”, “Fratello dove sei”), ma quello che più viene in mente guardando questo film è senza dubbio “Fargo”, un’opera magistrale sul crimine e le sue motivazioni. Confrontarsi con un’opera di McCarthy non è certo una cosa semplice e molti (fuori dell’America, principalmente), hanno visto il film dei Coen come un depauperamento del romanzo dello scrittore, considerato uno dei massimi viventi (di cui si stanno girando le versioni cinematografiche de “La strada” e “Meridiano di sangue”). Nel libro, a far da contraltare alla crudeltà di cui il testo è disseminato, ci sono le parole che lo sceriffo dice alla moglie, ai suoi vice o semplicemente a se stesso, quando osserva con disincanto come la droga e il denaro stiano cancellando ogni forma di umanità, a partire dalle cose che sembrano più semplici e banali. È vero, non tutto è stato riportato nel film, che ha un andamento molto più concitato e compresso, e forse la cosa di cui si sente più la mancanza è la riflessione finale dello sceriffo sul motivo e il significato del lavoro. Ma l’opera dei Coen riesce comunque a mantenere il tono che McCarthy ha impresso alla storia, grazie alla felicissima scelta degli interpreti: Javier Bardem, con un’espressione pietrificata e un’acconciatura incredibile riesce a trasmettere perfettamente l’alienità di Anton Chigurh; Josh Brolin, nei panni di Moss, che si assume la responsabilità della sua irrimediabile scelta; ma soprattutto Tommy Lee Jones è esattamente come il lettore si immagina debba essere lo sceriffo Bell. Asciutto, misurato, ironico, come quando sembra temere più la moglie dei criminali cui dà la caccia. E tragicamente consapevole di quanto sta accadendo: «Tutto comincia quando si inizia a trascurare le buone maniere. Quando non senti più dire “signore” e “signora”, sai che la fine è vicina». “Non è un paese per vecchi” probabilmente non è un film perfetto, ma di certo è uno dei migliori che i Coen abbiano girato e si merita fino in fondo le statuette vinte all’Oscar 2008.
Beppe Musicco
venerdì 13 agosto 2010
CALIGOLA e il dramma del desiderio
Vent’anni di limature. Fino a riscriverla tre volte. Ad inaugurare la kermesse riminese sarà la pièce su cui Albert Camus ha lavorato tutta la vita. Dove, attraverso il celebre imperatore, dà voce allo struggimento dell’uomo: «Voglio l’impossibile». E provoca ognuno ad una scelta: o far cadere quella domanda, o lasciare che ci renda protagonisti nel teatro dell’esistenza
Ci ha messo vent’anni. E tre versioni. Ci ha lavorato su tutta la vita. Perché Caligola è tutto quel che Albert Camus poteva dire. Che aveva detto altrove, in romanzi ammirevoli. E in altre pièce, saggi, in polemiche. Ma Caligola ha dato corpo e voce a tutte le altre parole. Le ha fatte diventare “uno”, un corpo e un volto. Un personaggio che “fa pensare”, come vien detto sulla scena. Anche se ormai le parole di una famosa scena, «voglio la luna», le canta Emma Morrone - la vincitrice di Amici in testa alle hit parade - e non più i sedicenti rivoluzionari di casa nostra che semmai gridano di volere Santoro in tv o qualcuno in galera. «Voglio l’impossibile», dice una delle battute più celebri del dramma.
La versione iniziale, del 1941, cui qui si fa riferimento, è quella più ricca e pervasa da motivi che poi l’autore, in quella più nota del 1944 (andata in scena nella Francia sotto bombardamenti e dunque letta molto spesso in chiave “politica” anti-hitleriana) e poi nelle successive riedizioni fino alla morte, provvederà ad “asciugare” e a togliere. Per pudore, per stanchezza, per rastremazione stilistica. Ma qui, proprio nella ricchezza e nella esuberanza di questioni, si coglie forse meglio da quali cavità viene il carattere principale del personaggio creato da Camus con il nome del celebre imperatore romano: l’inafferrabilità. Che è come dire il carattere somma di tutti gli altri caratteri. L’inafferrabilità di un uomo che ha deciso - a seguito della perdita di quanto gli dava felicità, ovvero l’amata Drusilla - di essere “logico” con la finitezza e il potere. «Prima di sapere che c’è la morte», dice nelle prime scene Caligola, «tutto mi sembrava credibile. Perfino i loro dèi, le loro speranze, i loro discorsi. Ora non più. Ora non mi rimane altro che questo futile potere di cui tu parli». Il potere massimo, quello dell’imperatore, diviene il luogo di verifica, si potrebbe dire, della possibile libertà dell’uomo. A colui a cui tutto è consentito, è concessa l’esperienza della libertà come soddisfazione? È concessa la luna? Anche se il passato gli aveva concesso la luna, anche se nell’amore per la sua Drusilla ha avuto quella luna tra le braccia, il presente non gliela porta più. E nemmeno il dolore per la perdita è l’ultima parola.
Caligola lo sa bene. Non c’è un’ultima parola, nemmeno nelle esperienze più dure e profonde. Né il dolore, né la viltà, né la crudeltà, e nemmeno la tenerezza dicono l’ultima parola sulla vita, che è perseguitata da una tensione assoluta: «Ecco cosa mi perseguita. Questo andare oltre...», dice come un Ulisse dantesco pieno di amarezza. «Nelle mie notti senza sonno ho incontrato il destino: non puoi immaginare che aria idiota che ha. E monotona...». Questo disvelamento, che atterrisce e al tempo stesso spegne e consegna la vita a una sospensione assurda tra aspirazione e prostrazione.
Come Dante. E infatti Caligola appare ai suoi interlocutori più vicini, agli stessi congiurati, incomprensibile. Ha accettato di essere “logico” con questo disvelamento e con questa alternanza tra struggimento per la tensione alla conquista di qualcosa di “impossibile” e la caduta in una specie di suprema indifferenza per tutto. Perciò sembra giocare con la strage, dando nessuna importanza alla morte che sparge intorno a sé in modo tanto ironico quanto feroce, e sembra disfare ogni fondamento al potere proprio mentre ne attua in modo sconcertante gli arbitrii più folli.
Il Caligola di Camus si trova, in partenza, esattamente nella stessa situazione di Dante. Aver perso la donna amata lo getta nella selva oscura. Il dramma, infatti, si apre con Caligola cercato dai senatori e dalla corte perché erra come un pazzo dopo la morte di lei. Anche qui, come in molti capolavori della letteratura, la vicenda appare segnata da un conto aperto con il destino. Un trauma, cioè un colpo subito e che scuote ogni possibilità di pacifico “accordo con la vita”. «Come si può continuare a vivere con le mani vuote quando prima stringevano l’intera speranza del mondo? Come venirne fuori? (scoppia in una risata falsa, artificiosa). Fare un contratto con la propria solitudine, no? Mettersi d’accordo con la vita. Darsi delle ragioni, scegliersi un’esistenza tranquilla, consolarsi. Non è per Caligola».
L’assurdo e il destino. La vita per l’imperatore diviene perciò “esecuzione”, termine che ha il triplice valore di performance teatrale, privilegio di boia, e inevitabile azione secondo una necessità stabilita e ineluttabile. La non-tranquillità di Caligola contrasta con tutti i generi di tranquillità dei personaggi che lo circondano, i senatori, l’amante, i sudditi. La sua inquietudine lo porta a vestire i panni di una grottesca Venere (dea dell’amore e della nascita del mondo) o del più buono tra gli uomini che, al pari di Dio, pensa di poter ridare l’innocenza a chi ha commesso la colpa, come accade con uno dei suoi congiurati, una specie di personaggio alter ego, Cherea. Il quale sa della vita le stesse cose di Caligola, ma si comporta diversamente. Anche io, dice Cherea, «ho voglia di vivere e di essere felice. E credo che le due cose non siano possibili se si spinge l’assurdo fino alle estreme conseguenze».
L’assurdo, appunto, è la presenza del destino, che ha quel volto idiota. Mentre Caligola sa che ogni azione è perciò in fondo uguale, imprigionata nell’impotenza di avere (riavere) la luna, Cherea accetta invece che per una convenzionale felicità nella vita certe azioni valgano più di altre. Ma per lo stesso motivo deve eliminare Caligola, che più che odiato è “scomodo”.
«Sono ancora vivo!». Il testo nasce a ridosso della grande stagione teatrale e letteraria dell’assurdo. La stagione di Beckett, di Ionesco e di altri grandi drammaturghi e scrittori. L’esperienza devastante della Seconda Guerra mondiale mise un sigillo anche socio-politico a questa conoscenza del destino come “assurdo”, e la vita una poesia sulla morte. «La recito a modo mio, tutti i giorni», dice Caligola. Camus mise la sua forte, acuta intelligenza nella lavorazione, e le sue ferite e le sue fascinazioni di uomo. Il suo sguardo che conosceva il deserto e i colori d’Algeria. La conoscenza della lotta politica e culturale.
Ci sono molti momenti in cui al lettore e allo spettatore si rivelano verità estreme della vita. Anche scomode o perturbanti. E il grido finale di Caligola mentre muore («Sono ancora vivo!») si fissa, quasi come sguardo di medusa che pietrifica. O meglio, che incide con il fuoco l’esistenza di una figura umana che desidera l’impossibile e per questo scardina ogni luogo comune obbligando a “pensare”.
Il lettore che non indietreggia di fronte a questo sguardo ha due possibilità. O compiangere e detestare Caligola, oppure lasciare che quella domanda passi sulle proprie labbra, butti sottosopra la propria esistenza, lo renda strano e inafferrabile agli occhi di tutti. Lo renda un “personaggio” in questo teatro di gente che invece s’è messa d’accordo con la vita.
Tratto da Tracce, N.5, Maggio 2010
lunedì 21 giugno 2010
È QUASI L’ALBA, DOTTOR SCHWEITZER!
di Lorenzo Fornasieri
Grande e triste, forte come una montagna, cristallino come un iceberg.
Un iceberg si vede da lontano e incute il senso del “sublime”: una paura misteriosa, troppo grande per noi, troppo ancora invisibile. Ciò che vediamo subito sulla superficie delle acque del sentire e pensare e fare umani, è l’amore per la musica che accompagnò per ottant’anni la lunghissima vita di Albert, senza mai divenire la sua occupazione principale. Quasi una seconda prima natura; quasi l’eco sensibile di un canto al lui stesso incomprensibile.
Che cosa ci nasconde dunque o a che cosa ci invita questo grande del secolo passato? Egli che ebbe come “punti di applicazione” della suia straordinaria energia la filosofia, la teologia, la musica, la medicina?
Mi si permetta qui un cenno autobiografico. Ero poco più di un ragazzo quando “incontrai” Albert Schweitzer per la prima volta vedendolo (per caso?) in una bellissima intervista televisiva, condotta da Sergio Zavoli. Il grande Dott. Schweitzer era nella sua missione di Lambarenè. Era il Luglio del 1965. Le note della “Toccata e Fuga in re minore” sottolineavano i dialoghi. Ricordo che in quei giorni corsi da padre Alberto Fontana, organista a Santa Croce in Milano, (sarebbe partito per la Costa d’Avorio all’età di 47 anni), per farmi mostrare quella partitura: mi aveva affascinato e dovevo suonarla anch’ io. Qualche mese dopo, infatti, mi chiesero senza mezzi termini di accompagnare le messe: avevo quindici anni ed ebbi l’onore di suonare il Balbiani-Vegezzi-Bossi di 1800 canne da poco installato in Santa Croce. Più tardi avrei sempre suonato quella Toccata all’ingresso della sposa, in ogni celebrazione di matrimonio, sorprendendo un poco i vari celebranti, che però forse vi sentivano l’inizio di una vita nuova…
Nell’intervista citata mi colpì, oltre allo stanco camminare del novantenne Dottore fra i “viali” del suo ospedale, una frase: Sergio Zavoli gli domandava, alludendo alla conclusione della mirabile vita (che poi sopraggiunse in ottobre): «Le sembra di aver speso bene la sua vita?» il Dottore rispondeva: «Prima di tutto spero di averla spesa». Mi affascinò questa risposta (eravamo tutti un po’ kantiani): ora riconosco che fioriva su una vita spesa sperando che questo imperativo categorico fosse accetto al Cristo, sempre più lontano nella storia, sempre più irraggiungibile e impossibile contemporaneo come Gesù di Nazaret.
Di qui l’animo grande e triste di Schweitzer, che però è l’ animo vero del grande organista e amante di Bach. Del grande di Eisenach l’ alsaziano Schweitzer dice : “…in lui c’è una tristezza profonda e un sognante misticismo”. E siamo all’ inizio di più strade: parliamo del teologo, del pastore che teneva i sermoni sulla intangibilità della vita anche nelle sue forme più tenui, riflettendo sul comune sentire delle religioni -specie orientali -nella Strasburgo del primo dopoguerra? Parliamo del filosofo incantato da Kant ma debitore, forse inconsapevole, della Sinistra hegeliana fino a negare una possibile vita di Gesù come nostro contemporaneo, come il Cristo di una fede storicamente e storiograficamente possibile? In fondo
l’ impegno teoreticamente principale di Schweitzer fu nell’ analisi delle vite di Gesù redatte in area per lo più germanica tra il 1750 e il 1890: dove si rileva ovunque una forzatura razionalistica per espungere il mi -racolo dall’ operare storico di Gesù. Si voleva vedere il progresso dell’ Idea del religioso ,che sarebbe caduto quale scorza mitologica (il messianismo giudaico) nella via della grande e ultima liberazione dell’ uomo . Questo è poi il nucleo dell’ ateismo del Novecento.Oppure parleremo del “ Musicista poeta” cioè di Bach secondo Schweitzer? O diremo di Sachweitzer organaro? O di lui come medico appassionato all’ umanità dolente dei fratelli nell’Africa della lebbra e di altre epidemie e piaghe devastanti specialmente i bambini?
Sulla teologia è stato redatto di recente un dossier su Humanitas del marzo 2009, dove illustri studiosi chiariscono le categorie così complesse che si delineano quando si voglia scrivere un vita di Gesù.
Qui, più semplicemente, si vuol dare un cenno su Bach secondo Schweitzer. In questo caso dire Schweitzer è come dire Bach: tutto il suo impegno di esecutore, di musicologo, di organaro (sic!) è imperniato sul grande di Eisenach. Questo fenomeno è peraltro abbastanza frequente: quando un musicista si addentra nello sterminato campo dei temi dei testi delle cantate dei concerti per violino solo, per cembalo e violino, decide benpresto di dedicarvi la vita.O ,per meglio dire, si rende conto che ne sarà presa la vita intera. Così con G. Gould, con il contemporaneo Brahmani, con la più grande pianista russa del Novecento , Maria Judina. In particolare quest’ ultima, prima di fede ebraica, poi cristiana, fu capace di incantare Stalin che fece il vien facile alzare lo sguardo a certi vertici. Bisogna dire che, pur avendovuoto attorno a lei uccudendo molti ma risparmiandola e tenendo care le sue incisioni. Judina fu interprete somma principalmente di Bach, ma grandissima anche in tutti gli autori che affrontò: sarà ricordata in varie occasioni in quest’anno 2010, anche al Meeting di Rimini ,con il contributo dell’ ultima sua discepola, la pianista Marina Drozdova.
In Schweitzer dunque un amore ai testi delle cantate, un percepire dentro quei testi biblici (rimaneggiati a volte non felicemente da Picander): Bach –ci dice Schweitzer- legge, sente, evoca delle immagini con occhi quasi di pittore. Tutto è sentito come da celebrarsi, come appunto sacro rito, liturgia. L’ appercezione del respiro religioso della Scrittura come appare nei testi suggerisce una costruzione architettonica. Archi, volte, cordoli,lunette, e ancora guglie, riccioli di marmo, icone, policromie di marmo…Bach porta a fioritura ogni germe che sorprende nei testi, quasi incarnandoli in sé (ma per noi – e qui è veo Maestro) . E’ uno sgorgare inesausto di temi che vengono cantati accresciuti, rivisitati. Bach, in fondo, respira del respiro delle Scritture e dell’ azione liturgica. Il ruscello ( Bach significa “ruscello” !) sembra zampillare di acqua sempre nuova che scende all’ oceano delle anime che verranno nei secoli per saziare la sete di bellezza.
Nel suo bellissimo libro Il Musicista poeta, Schweitzer enuclea una serie di immagini che si aprono in disegni e ritmi sul pentagramma e che attraverseranno tutta la sua musica e la sua vita: dai tratti giovanili ai momenti di splendida senilità.
I temi della calma, della goia, del tentennamento; i colpi della flagellazione, il tripudio (scalette ascendenti) degli angeli; il rantolare della morte ( sincopati descendenti). Il male come tradimento, come serpeggiare del serpente ( intervalli di seste puntate); il doloroso incedere di Cristo (scale discendenti) sul Calvario; il lamento degli amici sul Cristo morto (cromatismo discendente sincopato)…
Questi pochi esempi fanno dire a Schweitzer che c’è un unico respiro nella musica di Bach e un unico movimento in quattro tempi: l’ incarnazione, la passione,la discesa agli inferi e l’ esplosione della resurrezione. Ma se questo è l’ Evento centrale della realtà come tale, tutto il mondo , tutte le cose vi partecipano rivestendo la loro propria natura di colori e venature che hanno il sapore e il disegno sempre nuovo della natura: la primavera, i fiori, il galoppo della partita di caccia, lo sciacquio delle acque, la luminosità di un vestito di sposa… Bach scrive anche cantate “profane”: sono in realtà celebrazioni di tutto lo spettro dell’ umano, così che non c’è nulla di non sacro: tutto è sanabile e salvo, fino a una celebrazione cosmica anche delle munuzie.
Bach è “il Musicista pittore”: con la sua tavolozza dipinge l’ ora della sera, la forza giovanile dela primavera, l’ inverno e la morte dell’ anno vecchio subito risonante della baldanza dell’ anno nuovo; le onde del Giordano, la calma placida del lago di Tiberiade con i rintocchi delle ondine sulla spiaggia…
Schweitzer fu bersagliato dalla critica formale, che vedeva il “ bello musicale” come assolutamente staccato da ogni dinamica del sentimento: ma come chiedere questo astrattismo a chi vive e sente profondamente le problematiche esistenziali della teologia luterana? Del resto l’ anima tedesca è fondamentalmente sentimento: lo rivelerà la tempesta del romanticismo. Si critica questo voler vedere quasi sempre un Bach descrittivo. Eppure il fluire della musica europea stava passando dal melodramma, attraverso Beethoven e Brahms alla tragigità wagneriana e alle coloriture pre impressionistiche di Lisz. Bach dolcissimo e appassionato nelle arie (troppo italiane dice Schweitzer) rimane un architetto ben fornito di matematica e compassi…) Eppure anticipa soluzioni rivoluzionarie che penseremmo solo inaugurate dal genio irrequieto e irrisolto di Beethoven: il compositore delle cantate comincia dei brani su un intervallo armonico di settima!...
Bach contempla ciò che avviene: la redenzione è una ristrutturazione delle cose attraverso l’ edificazione di un nuovo universo. Lo stesso desiderio della Morte (“Vieni, dolce morte) non è disfatta dell’ impresa umana , ma sospiro del compimento. Da questo punto di vista sarebbe interessante confrontare questi passaggi della consegna di sé stessi(”vieni dolce morte”) con la rabbiosa pretesa di chiamare dolce morte l‘eutanasia…
Questa ristrutturazione del reale corre come una nuova strada fianchegiata dai 48 tigli delle 24 coppie di preludi e fughe che presentano al mondo la nuova musica: il temperamento equabile: il clavicembalo ben temperato. E’ la strada indicata che immette nell’ orecchio naturale dell’ uomo un sentire nuovo con una leggera forzatura che apre alle cose nuove: una spinta al desiderio di infinito con appunto la nostalgia inesausta della Totalità. Il sistema ben tempreato, non è perfetto, ma questa sua ferita corrisponde perfettamente alla nuova accelerazione che la storia subisce nella liturgia cosmica cui sopra si accennava..
Bach conosceva bene le problematiche della teologia luterana, eppure si impegna a riscrivere le parti comuni della messa cattolicain latino, accogliendo il sapore di alcuni intevalli dei modi gregoriani; mostrandoci che la musica, il canto non sono cattolici o protestanti, perché è la persona stessa che sente, vive e soffre e il Cocifisso parla a tutti.
Schweitzer organaro ? La passione per lo strumento principe della liturgia lo portò a guardare, smontare, restaurare: fu chiamato in vari Paesi per consulenze sul restauro e sul perfezionamento degli organi:.Questo mettere le mani nei mantici, sui tiranti, nelle ance ,sui somieri; questo reinventare le disposizioni foniche e raffinare i timbri era un sentire la materia che doveva far cantare la musica di Bach. Questi aveva sognato uno strumento che avesse del violino il fraseggiare, dell’ organo le varietà timbriche e la potenza, del clavicembalo la brillantezza;Avrebbe sognato un cassa dell’ espressione (Che fu fabbricata nel romanticismo). Il violino rera il termine di assoluto paragone: nei concerti per violino quante sono le note in triadi o più formazioni di accordo (si pensò ad archetti speciali) Bach come uno scriba che trae dal suo tesoro cose vecchie e cose nuove? Che l’ arte fiorisca sulla materia e dalla materia quale disegno di ciò che l’ anima umana vi appercepisce è vero: è realismo come ricerca di una personalizzazione della materia stessa.Un cogliere la stessa come signata quantitate meae humilitatis: materia che porta la cifra del mio umile abbassamento ad essa, come de-vozione di essa, come offerta a Dio creatore di ciò cho io manipolo, del mio gesto poetico (poiesis) .Materia creata per il canto , per composizioni che pervadano l’ umano in tutte le sue pieghe e sfaccettature. Tutto diviene canto sel’ intenzione è mettere il proprio talento a gloria di Dio: S.D.G. . Soli Deo Gloria era la formula che Bach apponeva al termine di ogni sua opera.
Il Musicista poeta rimane un testo basilare per tutta la critica e la riscoperta di Bach fino alla filologia più rigrosa. Fu scritto nel 1905 al termine di un lungo processo: la prima ricoperta del Kantor ad opera di Mendelsohon. Lì era un sentire in chiave moderna: con la sensibilità e la strumentazione romantica e post-romantica. Come a dire: partiamo sempre dall’ oggi, dall’ uomo vivo che respira, soffre,opera nel suo esser-gettato nel mondo e vuol rivelare i grandi rivivendoli.
Si aprirebbe qui un grande discorso sulla musica sacra e gli strumenti da usare nella liturgia: espressione e geometricità si devono coniugare nella costruzione ad esempio di nuovi organi, che abbiano i timbri di questa grande tradizione tedesco-francese- italiana. Certi eccessi di rigore per la costruzione di strumenti
d’ epoca non tengono conto che anche le cose sono in qualche modo offerenti, pazienti interpreti dell’ offerta liturgica. L’ organo in una chiesa non è mai uno strumento a sé stante a d uso solo di concerti; tra l’ altro la quasi totalità della musica per organo è sacra…
Se Schweitzer accosta Bach, padre della musica, a Michelangelo, noi potremmo dire che Bach è il maestro di color che cantano; mentre Schweitzer è maestro di color che imparano. In tutto ciò cui si applicò, cercò di studiare indagare, cercare tutto con un’ intransigenza sistematica veramente germanica, anche se –da alsaziano- dice di dover parlare e scrivere e pnsare in due lingue…Alla fine della guerra (fu anche prigioniero) gli cambiarono nazionalità; e fu francese…
Quest’ ultimo accenno all’ arte organaria vuol essere una voce per una ripresa della costruzione di splendidi strumenti liturgici nonchè di restauro accurato delle centinaia di organi che da anni sonnecchiano nella polvere di tante chiese. E’ necessaria maggior pratica musicale nei seminari, diffusione della musica sacra e organistica fra i giovani mediante concerti supportati da spiegazioni e introduzioni ad un mondo stupendo, ma molto dimenticato per via di una trascuratezza non certo imputabile allla Riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Il dialogo con il mondo contemporaneo passa in modo privilegiato attraverso l’ arte: quanti musicisti tornerebbero alla viva Fonte del Bello in un percorso che è il talento che si trovano per le mani!
domenica 9 maggio 2010
Vasilij Grossman: un raggio di luce nel grigiore sovietico
Una mostra e un convegno celebrano l’opera dello scrittore russo. Un’occasione inaspettata per un centro culturale cattolico e una fondazione ebraica
Torniamo ancora una volta su Vita e destino di Vasilij Grossman. Molti di noi l’hanno avuto tra le mani quest’estate. Magari qualcuno ha ceduto le armi prima della fine, sopraffatto dalla mole e dalla complessità; qualcun altro si è commosso per una delle mille storie che compongono la trama del romanzo. I più tenaci hanno portato a termine la lettura, altri conservano solo il ricordo di qualche luminoso brandello. Tutti abbiamo capito che il romanzo di Grossman è una miniera dai mille filoni diamantiferi. E vorremmo capire meglio e di più.
Un passo fondamentale nella comprensione lo si può fare andando a Torino. Fino al 26 febbraio resta aperta la mostra organizzata dal Centro culturale Frassati e dalla Fondazione Arte Storia e Cultura Ebraica di Casale Monferrato, presso il Museo Diffuso della Resistenza di corso Valdocco. Gli stessi che hanno anche promosso un convegno internazionale, svoltosi lo scorso 12-13 gennaio. Solo tre spunti per invogliare a continuare la ricerca nella miniera di Vita e destino.
Itinerario alla positività
Appena si entra nella sede della mostra ci si trova di fronte alla ricostruzione della famosa “casa 6/1” e un video tuffa il visitatore nella vicenda che ha come protagonisti il generoso capitano Grekov, il soldatino Serëza e la telegrafista Katja. I due giovani si innamorano, ma la ferrea legge della gerarchia assegnerebbe la ragazza al comandante. Il quale però… Inizia così il filo rosso di uomini che compiono gesti che ogni calcolo puramente “logico” farebbe escludere; gesti di bontà inattesa, di libertà apparentemente controproducente, di razionalità che eccede il buon senso. Un filo rosso fisico conduce poi il visitatore su per le scale fino alla mostra e prosegue su ogni pannello. Cosa rappresenta quel filo rosso? È l’idea interpretativa forte che ha animato gli organizzatori: la storia umana, qualsiasi storia umana anche la più tragica (e quella raccontata da Grossman - la battaglia di Stalingrado, le violenze speculari dei totalitarismi - è tra le peggiori che siano occorse all’umanità), è un itinerario che apre misteriosamente a una positività ultima. Lo intuiscono i personaggi del romanzo, quando non si rassegnano a perdere la propria dignità di fronte alla sopraffazione, quando non accettano che la menzogna sia l’ultima parola. Lo ha intuito e vissuto lo stesso Grossman, quando ha voluto scrivere queste pagine e consegnarle ad amici perché le salvassero dalla condanna decretata dal Kgb; la rocambolesca vicenda del manoscritto è raccontata al termine della mostra in un bellissimo video.Recupero della memoria
Secondo spunto. Ha colpito molti dei relatori stranieri che mostra e convegno fossero organizzati congiuntamente da un centro culturale cattolico e da una fondazione ebraica. Certamente il fatto che Grossman fosse ebreo è una ragione. Ma le cose stanno più in fondo. Claudia De Benedetti, anima della fondazione ebraica di Casale, è entusiasta dell’iniziativa. Dice che è fondamentale per le giovani generazioni (settore di cui si occupa come Consigliere nazionale dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane) il recupero della memoria. Non un recupero statico né, tanto meno, rivolto al passato. La memoria, infatti, è solida base per proiettarsi al futuro: nell’umanità di chi ha sofferto senza rinnegare la propria dignità sta una saldo fondamento per costruire. Nessuna difficoltà nel fare una iniziativa del genere con un gruppo cattolico? Nessuna, risponde; anzi, è l’inizio di tante altre cose che si possono fare insieme. Ha addirittura in mente di portare la mostra a Gerusalemme ed è tanto convinta del valore di questa collaborazione che racconta divertita e compiaciuta di quel relatore inglese che le ha chiesto: «Lei è della fondazione Frassati di Casale?». Nel lapsus che ha confuso il centro culturale cattolico torinese con l’organizzazione ebraica casalese da lei guidata intravede il simbolo di una unità che deve proseguire.Viaggio di un manoscritto
Terzo spunto. A metà della tavola rotonda finale, chiede la parola il vecchio professore russo Sarnov; dice che per loro Vita e destino era stato come un raggio di luce nel grigiore sovietico, ma il manoscritto venne sequestrato e fu «come se avessero strozzato Grossman e la nostra speranza». Poi vennero a conoscenza che il manoscritto era giunto in Occidente. Allora la speranza rifiorì. Ma nessuno voleva pubblicare il romanzo e fu «come se avessero strozzato Grossman per una seconda volta». Poi Sarnov si arresta, si volta verso il tavolo dei relatori, dove siede Vladimir Dimitrieviã che ha pubblicato il romanzo nel 1980, e dice: «Ma c’è stato un uomo che ha avuto il coraggio di stampare Vita e destino e io - addita Dimitrievic, trattenendo a stento le lacrime - vorrei ringraziarlo». Spontaneamente tutti i convegnisti applaudono. E tu pensi che razza di esperienza di libertà è stato per migliaia di persone imbattersi in Vita e destino. E ti viene voglia di rileggerlo.Tratto da Tracce N.2, Febbraio 2006
lunedì 5 aprile 2010
THE HURT LOCKER
Un Oscar per gli artificieri della guerra in Iraq
di Antonio AutieriIl ritorno di Kathryn Bigelow all’eccellenza cinematografica meritava migliore attenzione, sia alla Mostra di Venezia dove era in concorso nel 2008, che nei cinema, dove è praticamente passato inosservato. Ed è un peccato, perché il film è una riflessione sulla guerra che spiazza. Senza dimenticare di fare grande cinema, con tutti gli strumenti che ci si aspetterebbe da un film di guerra: azione, tensione, ritmo, capacità di suscitare angoscia e pietà.
La regista di Point Break e del capolavoro Strange Days (è da allora, dal 1996, che rimpiangiamo il suo talento: l’ultimo suo film, K-19 su un sommergibile sovietico guidato da un improbabile Harrison Ford, non lasciò traccia) osserva dunque le azioni di un piccolo gruppo di soldati in Iraq, la cui missione è sgombrare il terreno da ostacoli e pericoli di ogni genere. Dalle automobili di potenziali kamikaze o dai cecchini che si possono nascondere ovunque, ma soprattutto dalle bombe che spuntano ovunque, addosso a persone vive o anche morte (perfino poveri bambini) o ben nascoste sotto il terreno, nelle case, dentro le auto… In effetti, il protagonista principale è proprio il nuovo capo dell’unità e sminatore o artificiere di grandissima professionalità, il sergente William James arrivato a sostituire - con un record incredibile di bombe disinnescate, oltre 800 - il predecessore Thompson (un cameo del noto Guy Pearce, che muore pochi secondi dopo la sua apparizione). Un capo che non si fa molto amare dai propri sottoposti, perché il suo coraggio sfiora spesso l’incoscienza e sembra esporre la truppa a inutili rischi. La guerra, o meglio il pericolo, è per lui diventata una droga di cui non può fare a meno («La furia della battaglia provoca una dipendenza fortissima e spesso letale, perché la guerra è una droga» recita una frase all’inizio del film). Tanto da conservare con cura maniacale e un po’ morbosa i pezzi delle bombe che avrebbero potuto ucciderlo. E da non saper tornare alla normalità, una volta tornato a casa. Ma forse c’è dell’altro, c’è anche il senso di una missione, una vicinanza a gente che soffre e che pure non ama gli “invasori” yankee. Perché nel film della Bigelow (che è tratto dalle cronache dell’inviato di guerra Mark Boal) c’è spazio anche per una tenera amicizia con un ragazzino che contribuirà a cambiare l’approccio di James, sempre spericolato ma più sofferente.
The Hurt Locker (letteralmente “la cassetta del dolore”, dove finiscono i resti di chi salta per aria per l’esplosione di un ordigno) ha diviso critica e pubblico che lo hanno interpretato in maniera diametralmente opposta: a chi lo trova un ambiguo affresco di una guerra da cui la regista non sa prendere le distanze, nell’esaltazione dell’eroismo di soldati simil Rambo, si contrappone chi vede nel film un atto d’accusa contro tutte le guerre. Ha fatto specie, a Venezia, leggere accuse a Kathryn Bigelow per il fatto di aver realizzato un film filo-Bush, da lei fieramente attaccato in interviste e conferenze stampa. Per lei l’Iraq è un tragico errore. Ma l’aver descritto i soldati americani - o almeno, “questi” soldati e non altri - come persone che cercano di fare il proprio dovere, rispettando un popolo che spesso non li ama e cercando di salvare anche chi cerca di ucciderli, questo non è politicamente corretto. E spiega tante, ingiuste, cattiverie su un film che - per le ottime qualità cinematografiche e per una rappresentazione dell’umano dolente e rispettosa - sarebbe un vero peccato perdere.
Miracolo a metà
Un film racconta la guarigione di una ragazza paralizzata. E piace ad atei e credenti. Ma nasconde un’ambiguità: la fede non c’entra in nulla. Ecco cosa succede quando non accettiamo il rischio di essere cambiati da ciò che facciamo
Dopo aver visto Lourdes, il film di Jessica Hausner, e averci pensato quanto basta per non dire solo quello che l’istinto mi suggerisce, ammetto che non so bene cosa dire.
Non che abbia le idee confuse. È che raccontare storie è una cosa molto difficile, e tante volte uno non lo sa e si mette a raccontare lo stesso, e per un po’ gli va bene, e riesce a produrre anche delle belle scene. Poi non sa bene come andare avanti e s’impantana, comincia a pasticciare, allora si aggrappa al già detto e al già sentito (anche in senso stilistico).
Non riassumere la storia è impossibile. Non è gentile verso chi ha voglia di vedere il film, ma almeno per linee generali occorre farlo.
La scoperta di Christine. Un gruppo di pellegrini va a Lourdes. Tra questi Christine, una ragazza affetta da sclerosi a placche, da anni costretta all’immobilità. Non è molto entusiasta del viaggio, preferisce le escursioni “culturali” come Roma. La sua assistente è una birichina cui piace più scherzare coi ragazzi che assistere i malati. Anche a Christine piacerebbe, ma non può. E se ne lamenta con un prete: perché proprio io?
In sua compagnia ci sono altre persone interessanti. Una è un’anziana che vuole guarire da una grave malattia e chiede a un prete come fare, sentendosi rispondere che è un problema di atteggiamento spirituale. C’è poi Cécile, la capogruppo, una donna giovane molto severa, che bacchetta la leggerezza delle ragazze e ricorda che dobbiamo pregare per l’anima e non per il corpo. Cécile in realtà è malata gravemente, e questa sua scissione dell’anima, che la rende rigida e infelice, si rivelerà presto anche nel corpo.
Una mattina, imprevedibilmente, Christine scopre di potersi muovere, si alza. I medici ammettono che si tratta di qualcosa di più di una semplice remissione del male. Lei legge questa guarigione come la possibilità, finalmente, di fare qualcosa di piacevole, come mangiare da sola una coppa di gelato, immaginare un futuro per sé e innamorarsi di un Cavaliere di Malta che si trova nel suo stesso gruppo.
Il finale è lungo e privo d’idee. Prima Christine e il giovane si baciano, poi c’è una festa da ballo e lei vuole ballare, poi cade per terra ma si rialza da sola, e alla fine - più per un moto di perplessità che per una recrudescenza della malattia - finisce per risedersi sulla sedia a rotelle, mentre tutti cantano Felicità di Al Bano e Romina.
Freno tirato. La Hausner è brava nel creare il ritmo del film, ci sono scene comiche e tutto sommato ci si diverte. Lo spettatore prende spontaneamente le parti della ragazza, non solo perché l’attrice, Sylvie Testud, riesce a trasmettere bene lo spaesamento del personaggio, ma perché è chiaro che il miracolo premia la sua voglia di vivere la vita fino in fondo.
Alla fine, però, la Hausner non riesce nell’intento: per farlo avrebbe dovuto liberarsi di certi modelli (in primis Luis Buñuel), che impongono ai fatti schemi troppo rigidi. La regista non segue fino in fondo il paradosso che a un certo punto sembra voler uscire dalle sue mani e si accontenta di una storiellina abbastanza atea e di gusto surrealista. Dico “atea” non tanto perché la Hausner sia atea dichiarata, ma perché le cose si fermano un po’ a metà, segno che la storia viene raccontata con il freno a mano tirato.
Si ferma a metà Christine, che ottiene il miracolo senza in fondo sapere che farsene: si ferma all’idea che adesso potrà realizzare i suoi sogni, o qualcosa di simile, e tant’è. Non vuole guardare fino in fondo come stanno le cose: non perché la regista voglia rappresentare un caso d’incertezza, ma perché incerta è la regista stessa, che si ferma anche lei a metà, proprio dove avrebbe potuto sferrare l’attacco finale: una preghiera, o anche una bestemmia... Qui sta il sostanziale fallimento del film, e su questo sono d’accordo con il giudizio di Vittorio Messori.
Certo che pure la Chiesa si ferma a metà (anche un po’ prima) e non esce molto bene dal film. Chi può trovare affascinante il cristianesimo quando le risposte dei suoi rappresentanti sono sempre così complicate e così poco pertinenti con l’urgenza delle domande? A un malato di cancro che urla a Dio che lo liberi dal male non si può rispondere che occorre, prima, un percorso per aprirsi alla Sua volontà affinché guarisca l’anima e dopo, semmai, lenisca le sofferenze del corpo.
Non che siano dette parole sbagliate: quello che manca sono gli uomini. Qui le parole della fede volano un po’ distratte qua e là, prendono corpo in voci che appartengono a persone che pensano ad altro: al futuro, all’amore, alla ragazza, tutte cose bellissime ma che il film ci presenta sempre come altro rispetto alla fede. La fede non c’entra mai: «Non bisogna mai esagerare», dice una signora che si era chiesta perché fosse stata miracolata proprio questa ragazza poco religiosa.
Uguali a prima. Insomma, l’idea che una tipa così guarisca a Lourdes non era brutta, anzi. Il problema è che, per realizzarla, un artista deve accettare dei veri rischi, e il primo è quello di essere cambiato da ciò che fa. E questo lo obbliga a prendere molto sul serio la fede. Qui, tutto sommato, di fede ce n’è poca. C’è solo una modernità malata, questo sì, oscillante tra il “credere di credere” e l’aperto scetticismo. E che alla fine, a dispetto del miracolo (cui nemmeno Christine sembra credere più), se ne torna a casa uguale a come era venuta.
Se la Hausner ci avesse raccontato tutto ciò con mano ferma, facendo proprio fino in fondo l’atteggiamento irridente dell’amato Buñuel, alla fine il film sarebbe risultato più apprezzabile. Invece si è persa. Ma proprio questo, paradossalmente, le ha portato fortuna, producendo un’ambiguità che alla fine ha reso gradito il film agli atei come ai cattolici: ciascuno ha potuto vederci quello che voleva.